Circolo Karl Marx Jesi

Sacconi torna all'antico rispuntano il job on call e il precariato a vita

Le misure saranno contenute nel piano triennale di Tremonti

 

Il piano Sacconi sul mercato del lavoro è praticamente la pietra tombale su quel (poco) di buono che il precedente governo Prodi era riuscito a fare. Quello che si chiamerà un mercato del lavoro "light" nelle idee di Sacconi prevederà 11 azioni guida, dall'apprendistato al job on call che rispunta dal passato. Sarà possibile una regolazione affidata agli accordi tra parti sociali e ai loro enti bilaterali nel caso di un apprendistato esclusivamente aziendale, mentre quello di alta formazione sarà utilizzabile anche per i dottorati di ricerca. Note dolenti per i precari, che con le nuove norme potranno rimanere tali anche dopo i tre anni, fissati come limite dal suo predecessore Damiano. Sarà infatti affidata alla contrattazione collettiva la possibilità di superare il vincolo di 36 mesi per la stabilizzazione dei contratti. Sulla scia della nuova Europa saranno introdotte novità anche sull'orario di lavoro, con la semplificazione delle norme e un'interpretazione più certa, incoraggiando la contrattazione aziendale in materia. Verrà istituito un libro unico del lavoro che prenderà il posto dei libri matricola e dei libri paga. Per quanto riguarda le dimissioni, viene abrogato l'obbligo delle dimissioni volontarie su modulo del Ministero del Lavoro, facendo saltare così la prassi della lettera di dimissioni in bianco. Spariscono anche gli indici di congruità fra i beni prodotti, i servizi offerti e la quantità di ore lavoro necessarie. Saranno semplificate pure la dichiarazione di assunzione - per cui sarà introdotto l'invio telematico del prospetto, l'invio del prospetto solo se i dati modificano la situazione aziendale, l'eliminazione dell'obbligo di certificazione - e quella di assicurazione. Ancora: abrogato il registro orario di lavoro per i lavoratori mobili dell'autotrasporto;salta il limite alla piena cumulabilità dei redditi da lavoro e da pensione e saranno istituiti i buoni prepagati per i lavoratori occasionali o a prestazione (come giardinaggio, baby sitting, lavori stagionali degli under 25, vendemmia famiglie, imprese familiari, imprese agricole o del turismo) che il lavoratore potrà versare anche ai fini contributivi. Altre note dolenti: torna il job on call, « al fine di regolarizzare gli spezzoni lavorativi nei servizi come la ristorazione. Sacconi prova a dare un colpo anche al lavoro nero e all'abuso di straordinario, modificando le norme relative alle sanzioni volte a contrastare il lavoro sommerso in modo da renderle «più certe» e «congrue». In sostanza, per fare un esempio, aumentano i distinguo dal punto di vista della gravità della sanzione fra chi occulta integralmente i rapporti lavoro e chi, invece, non li occulta ma utilizza uno schema sbagliato come accade nel caso in cui il rapporto di lavoro viene regolato da un contratto di co.co.co al posto di un contratto di lavoro dipendente. Per quanto riguarda, poi, l'abuso legato all'orario di lavoro viene prevista una maggiore specificità, gradualità e proporzionalità nelle sanzioni che riguardano orari di lavoro straordinario, notturno o altro.

Liberazione 20/06/2008


«Lavoratori sotto attacco» Oggi la giornata di lotta indetta da Cobas, Cub e SdL

Manifestazioni in venti città, a Roma sotto Montecitorio

Salari in picchiata, contratto nazionale di lavoro e servizi pubblici sotto attacco. Nel frattempo razzismo e xenofobia avanzano, mentre nei cantieri e nelle fabbriche si continua a morire per il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza. Tutto questo avviene sotto lo sguardo colpevole di Cgil Cisl Uil. Per il sindacalismo di base, invece, «è ora di dire basta all'arroganza padronale e governativa». La via maestra per contrastare questa deriva - di cui anche il centrosinistra è responsabile - è la lotta sui luoghi di lavoro e nelle piazze.
Per questo Cobas, Cub e SdL, in vista dello sciopero generale che convocheranno in autunno, hanno indetto per oggi una giornata di mobilitazione nazionale, con manifestazioni e presidi in venti città: a Roma (sotto Montecitorio, ore 12), Milano, Torino, Genova, Brescia, Venezia, Vicenza, Bologna, Reggio Emilia, Firenze, Pisa, Perugia, Chieti, Cagliari, Napoli, Potenza, Bari, Catanzaro, Palermo, Catania.
L'appuntamento di oggi è parte del percorso unitario che le tre principali organizzazioni del sindacalismo di base «antagonista e conflittuale» hanno deciso con l'assemblea del 17 maggio scorso al Teatro Smeraldo a Milano, alla quale hanno partecipato circa 2mila delegati. «Negli ultimi quindici anni - ricorda una nota unitaria - il padronato italiano è riuscito, per i propri profitti, a sottrarre ai lavoratori/trici, ai salari e alle pensioni, ben 10 punti percentuali del reddito nazionale, ottenendo in più da governi di centrodestra e centrosinistra la più ampia precarizzazione del lavoro». Ciononostante, la Confindustria, «spalleggiata da governo e opposizione parlamentare, ostenta la massima aggressività e, mai sazia, vuole abbassare ulteriormente salari e pensioni, precarizzare totalmente il lavoro e non spendere neanche un euro per la sicurezza dei lavoratori/trici».
La piattaforma rivendicativa è piuttosto articolata. Cobas, Cub e Sdl chiedono «forti aumenti per salari e pensioni; sicurezza nei luoghi di lavoro e sanzioni penali per chi provoca infortuni gravi; difesa di veri contratti nazionali, della pensione pubblica e del Tfr; abolizione delle leggi Treu e 30; ripristino della scala mobile; garanzia del reddito contro la precarietà lavorativa e sociale e contro la detassazione degli straordinari; uguali diritti per stanziali e migranti contro il razzismo e la xenofobia». Si va in piazza anche «per dire basta al monopolio della casta Cgil Cisl Uil sui diritti sindacali», rivendicare «pari diritti per tutti i sindacati» e «per restituire ai salariati il potere decisionale».
La mobilitazione nazionale unitaria si svolgerà in contemporanea con quella del pubblico impiego indetta dalla RdB Cub. Nel mirino del sindacato, il piano Brunetta e le misure contenute nella manovra approvata dal Consiglio dei Ministri «che appaiono - denuncia la RdB Cub - mirati alla distruzione della pubblica amministrazione e dello stato sociale». Altro motivo di conflitto è l'attacco alla contrattazione, «dal momento che il governo intende legiferare su materie da sempre oggetto di trattativa tra le parti».

20/06/2008

La "carta sociale" di Tremonti elemosina umiliante di Stato

Un provvedimento-annuncio del ministro Robin Hood che odia redistribuire

 

Claudio Jampaglia
Gli unici contenti sono quelli della Coldiretti, «pronti a collaborare con la nostra rete di migliaia di aziende agricole che vendono direttamente ai cittadini e con i mercati degli agricoltori che stiamo aprendo in molte città». Ma quando il tutto finirà nelle mani della grande distribuzione, si ricrederanno. Si chiama "carta sociale" e sarebbe, nelle parole dell'immaginifico ministro Tremonti, una tessera prepagata per i pensionati al minimo da ritirare alla posta e da usare per l'acquisto di generi alimentari scontati. Una sorta di carta di debito che il governo elargirebbe contro il carovita con i soldi prelevati dai petrolieri. E così Robin Hood Tremonti compie la sua impresa - almeno a parole - toglie ai ricchi petrolieri per dare cibo ai poveri pensionati. Un bel quadretto. Da Medioevo anglicano.
Ma proviamo a vedere i numeri. Secondo indiscrezioni dal Tesoro la "carta sociale" dovrebbe andare a circa 1,2 milioni di italiani, varrà 400 euro l'anno e sarà coadiuvata da sconti garantiti dal settore privato (-10%) sugli acquisti effettuati con la carta e del 20% sulla bolletta elettrica (50-100 euro l'anno di risparmio). L'aggravio per la finanza pubblica sarebbe di 500 milioni. Su queste basi stanno lavorando i tecnici di Tremonti. ma qualcosa non quadra a un primo colpo d'occhio. Secondo l'Istat, infatti, al 31 dicembre 2005 i pensionati italiani erano 16.560.879, così suddivisi: oltre la metà percepisce un assegno inferiore ai 1.000 euro al mese (il 54,8%), quasi un quarto ha un trattamento inferiore ai 500 euro al mese (il 23,8% ), mentre solo il 9,9% del totale può contare su più di 2.000 euro. Ora, chi è un povero pensionato? Si spera sia almeno quello sotto i 500 euro di reddito al mese. Quindi, ai dati del 1995, sicuramente inferiori a quelli odierni, i pensionati "poveri" sono 3.941.489. E se il fondo della tassa sui petrolieri sarà circa di un miliardo la loro "carta sociale" di conseguenza ammonterà a 253 euro. Un'elemosia di Stato.
Il calcolo è spannometrico - per forza l'abbiamo fatto noi - ma non è meno affidabile delle indiscrezioni ministeriali volte ad annunciare politiche di redistribuzione per lo emno umiliante, ammesso che ci siano. Il tutto si gioca sulla definizione di pensione minima su cui Berlusconi ha già giocato più volte le sue vane promesse elettorali. Tecnicamente "la minima" è un'integrazione via Inps al pensionato che non raggiunge il "minimo vitale" (da 11mila euro anno di reddito per un single, ai 23mila euro per due coniugi). Il tutto vale al primo gennaio 2008 la bellezza di 443,12 euro mensili. Quanto dell'integrazione di Stato si è già mangiato l'aumento dei prodotti alimentari (+5,8% da gennaio, con pasta e pane oltre il 10%) con l'inflazione generale che macina record su record (+3.6% a maggio)? Quasi tutto. Ed è comprensibile che proprio un rappresentante dei pensionati, il segretario dello Spi-Cgil di Bologna, Bruno Pizzica, paragoni l'iniziativa del governo alla «tessera annonaria» di fascista memoria: «Un provvedimento da alta scuola di demagogia buono per guadagnare vistosi titoli di giornali, ma che esporrà alla mortificazione i pensionati che ne fruiranno e che saranno immediatamente individuati come "poveri"». Non deve avere torto il sindacalista se pure Tremonti si era premurato di precisare che la carta sarebbe stata anche «un modo per mantenere l'anonimato perché non è giusto umilare nessuno». La cultura definitivamente imposta dal berlusconismo, d'altronde, è questa: poveri colpevoli, ricchi meritevoli. Quindi che si nascondano.
Il minimo che poteva fare il governo era avere la decenza di portare a 800 euro la minima, come chiedeva il Codacons (e Bertinotti) o di sgravare gli anziani da costi di servizi sociali e tasse. Ma non lo farà. Se ne accorge anche Tiziano Treu (Pd) che lamenta «l'assenza assoluta di un intervento redistributivo per i salari e le pensioni» da parte del governo «per combattere le diseguaglianze e per sostenere i consumi». Quando era al governo però faceva il contrario.


20/06/2008

 

 

Un disastro tutto tagli. Tornano pure i ticket

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 19/06/2008

La manovra è stata presentata ieri a sindacati ed enti locali, poi è stata varata dal consiglio dei ministri. Tremonti punta all'approvazione delle Camere entro l'estate. Sacconi annuncia il piano per «liberare il lavoro»: iper-flessibilità degli orari e reintroduzione di quei contratti precari che erano stati cancellati da Prodi Tornano pure i ticket Il governo vara la finanziaria triennale. Critici Comuni, Regioni e Cgil: a rischio i servizi. Gli statali senza fondi

Adesso reintroducono pure il ticket: il disastro-finanziaria è stato varato dal governo Berlusconi, che continua a vantare le «Robin Hood Tax» o i mutui allungati, ma come lo sceriffo di Nottingham sta piuttosto fregando le fasce deboli e il ceto medio («fottendo», direbbe meglio il ministro del Welfare Sacconi, che l'altroieri ha usato questa espressione riferendosi al Patto del '93). E' una corsa al taglio dei servizi pubblici, e, insieme, un aumento delle tasse più odiose, come i ticket, mentre le tasse vere - quelle «bellissime» - in realtà torneranno a essere condonate o bypassate dai più furbi, grazie alla neutralizzazione di tutte le misure varate da Vincenzo Visco. Realizzato anche un vecchio «sogno» dell'ex ministro Lanzillotta: verranno privatizzati i servizi pubblici locali, con una quota per i privati «non inferiore al 30%». E se la gara non sarà fatta, con assegnazione esclusiva al pubblico, l'evenienza dovrà essere addirittura giustificata (vedi box a lato).
D'ora in poi solo precari
Pessime notizie anche sul fronte lavoro, con la conferma del «programma Sacconi» (dal titolo «Liberare il lavoro»), iper-precarizzante, una super-fetazione della legge 30: il ritorno del «lavoro a chiamata», l'abrogazione dei limiti per i contratti a termine, ma anche l'eliminazione della «responsabilità in solido» degli appaltanti rispetto ai subappaltanti, e del cosiddetto «indice di congruità», che oggi è utile per capire se il personale dichiarato da un'impresa sia commisurato al servizio erogato. Ma verrà cancellato anche quel documento che permette di evitare le dimissioni in bianco, imposte soprattutto alle donne in caso di gravidanza (al di là delle ideologie, un principio di civiltà minima che dovrebbe avere cittadinanza anche presso il centro-destra). Senza contare la stretta sui riposi e l'allungamento della settimana a 60 ore (vedi il box dedicato qui sotto).
I sindacati (ma in realtà la sola Cgil), i Comuni e le Regioni si sono detti preoccupati per i tagli imposti agli enti locali: le cifre rimbalzano, si va dai 17 miliardi in 3 anni di due giorni fa, agli oltre 23 miliardi di «risparmi» circolati ieri. La manovra complessiva resta di 34,9 miliardi di euro, dal 2009 al 2011, con l'obiettivo di azzerare il deficit. Un esempio lo offre il 2009: 9,6 miliardi verranno dai «risparmi» (i tagli ai servizi essenziali, i «non» contratti statali, le «non» stabilizzazioni dei precari pubblici, le riduzioni dei trasporti locali, etc.), mentre 3,5 miliardi saranno le entrate. Il ticket, ha spiegato il presidente delle Regioni Vasco Errani, avrebbe bisogno di una copertura di 834 milioni di euro, altrimenti verrebbe reintrodotto quello che il governo Prodi aveva sospeso solo per un anno (10 euro su diagnostica e specialistica). Il governo ha dunque annunciato un tavolo.
Province a settembre
Dopo le proteste manifestate dagli enti locali (e soprattutto da diverse clientele politiche) il governo ha deciso di rinviare l'eliminazione delle comunità montane e delle province metropolitane (sono almeno 9, quelle che insistono sulle città più grandi): se ne riparlerà a settembre. Resta spinosissimo il nodo statali: i sindacati parlano della necessità di almeno 7-8 miliardi per il rinnovo del biennio, ma per ora sono certe solo le mille tagliole già disposte da Brunetta e il demagogico piano «anti-fannulloni» (anche se il ministro, come contentino, annuncia una possibile detassazione straordinari anche per il settore). Quello che preoccupa di più i sindacati, è però la regolazione dell'organizzazione del lavoro per legge, eliminando di fatto la contrattazione. Questo è un aspetto che disturba anche Cisl e Uil, in realtà molto più morbide sulla generalità della manovra: ieri Bonanni e Angeletti hanno insistito soprattutto sull'urgenza di reperire le risorse per il pubblico impiego e sul loro no alla sterilizzazione del contratto, mentre Bonanni ha sottolineato la lotta all'evasione, dicendosi contrario alla misura già annunciata da Tremonti, ovvero l'abbandono della «tracciabilità dei pagamenti» introdotta da Visco (impossibilità di usare contanti oltre i 100 euro di compenso agli autonomi). La Confindustria, per bocca di Alberto Bombassei, ha definito «positiva», la manovra, salvo la bocciatura da parte di Emma Marcegaglia della tassa destinata alle plusvalenze dei petrolieri (la cosiddetta «Robin Tax»). Il più critico è stato Guglielmo Epifani: la Cgil si dice «insoddisfatta», ed è preoccupata dai tagli agli enti locali e alla sanità, oltre ovviamente al nodo degli statali. 35 MILIARDI E' l'entità della manovra che copre il triennio 2009-2001. Il primo anno sono 13,1 miliardi, nel 2010 7,2 e nel 2001 serviranno 14, 6 miliardi.

 

Una manovra che taglia i fondi agli enti locali e aggrava il precariato

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 18/06/2008

Forbici per 17 miliardi, governatori e sindaci contro. Tornano il «lavoro a chiamata» e i contratti a termine senza limitazioni

Adesso che stanno al governo il gioco si fa serio: e infatti cominciano i tagli pesanti ai servizi pubblici e una forte ri-precarizzazione delle leggi sul lavoro. Bastino due misure, scelte tra le tante annunciate ieri e in arrivo al consiglio dei ministri di oggi: il ritorno del job on call (ovvero quello che trasforma il lavoratore in manodopera «squillo» a disposizione dell'impresa, chiamato o no a seconda della bisogna); e l'abolizione della legge sulle dimissioni in bianco, una delle meno conosciute ma delle più civili del passatogoverno: quella che obbligava a utilizzare lettere di dimissione con uno speciale codice alfanumerico a progressione cronologica, in modo da impedire che un imprenditore facesse firmare la comunicazione (più spesso alle lavoratrici) insieme al contratto di assunzione. Il ministro del Lavoro Sacconi vuole tornare al sistema precedente, ridando carta bianca alle imprese. Deroghe si annunciano anche per i contratti a termine, la cui proroga era stata limitata dal ministro Damiano, e Sacconi prevede anche l'abolizione totale del divieto di cumulo lavoro-pensione. Ma non basta, perché i problemi li vivranno tutti i cittadini, grazie al fatto che la finanziaria taglia molte voci di bilancio destinate alla sanità e al trasporto pubblico locale, proprio quei servizi destinati alle fasce più deboli. E non è ancora tutto: verranno favoriti anche gli evasori fiscali, dato che il governo ha intenzione di smantellare la riforma di Visco sulla tracciabilità dei pagamenti. Questa mattina l'esecutivo incontrerà le parti sociali, nel pomeriggio si terrà il consiglio dei ministri.
Enti locali: via 17 miliardi in tre anni. La manovra annuncia dolori per le regioni e i comuni, in particolare verranno martoriate sanità e trasporti: si taglieranno 3 miliardi nel 2009, 5 nel 2010 e 9 nel 2011. La manovra complessiva nei tre anni è di circa 34 miliardi, di cui 13,1 nel 2009, ed è obiettivo del governo ottenere il pareggio di bilancio nel 2011. «La manovra non è condivisibile», spiega il presidente delle Regioni Vasco Errani dopo un incontro con i rappresentanti del governo. I governatori prima ancora che sul merito, non concordano sul metodo: definiscono «inaccettabile mettere in discussione accordi già formalizzati e che hanno proiezioni pluriennali». Preoccupati si dicono anche i sindaci dell'Anci, con il coordinatore Leornardo Domenici. E la Cgil afferma che «il governo mette in ginocchio il Paese, tagliando di 9 miliardi in tre anni la spesa degli enti locali, di 2 miliardi la sanità, di 17 i ministeri e di 3 le spese del pubblico impiego e della scuola». Tra l'altro, insieme alla manovra, verrà presentato oggi anche il piano del ministro Brunetta orrendamente battezzato come «anti-fannulloni», che riduce tutta l'idea del servizio pubblico al problema del «nullafacentismo» e annuncia licenziamenti a raffica per chi non accettera mobilità, trasferimenti di funzioni e altre sanzioni. Non a caso, si prevede anche di privatizzare i servizi pubblici locali, permettendo grossi ingressi di capitali privati nelle cosiddette utility, secondo il principio di concorrenza.
Robin Tax, porte aperte agli evasori. La cosiddetta «Robin Tax» sulle compagnie petrolifere dovrebbe essere un sistema di tassazione «una tantum» (valido solo quest'anno) che darebbe circa 800 milioni di euro: si imporrebbe alle compagnie di dichiarare le plusvalenze realizzate grazie alle scorte (petrolio comprato quando il prezzo è più basso e rivenduto quando è più alto), applicandovi poi l'aliquota Ires (28% medio). E, restando in tema tasse, il governo pensa di abolire la «tracciabilità» dei pagamenti introdotta da Vincenzo Visco, ovvero la norma che impone di pagare con assegni non trasferibili, bonifici bancari e postali, o elettronici, i compensi sopra i 100 euro.

 

Class action, bye bye

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 18/06/2008

Rinviata di sei mesi, non sarà più retroattiva. Addio al caso Parmalat

Se il buon giorno si vede dal mattino, non si può proprio dire che la class action sia nata sotto i migliori auspici. Merito (suo malgrado) di un senatore di Forza Italia che nel novembre scorso salvò per errore di voto la fragile maggioranza del senato, votando l'emendamento che introduceva l'azione collettiva risarcitoria. Lui scoppiò in lacrime ma la class action, tra i boatos di Confindustria, trovò un posto nelle centinaia di pagine della legge finanziaria 2008.
«Un provvedimento all'amatriciana», così Luca Cordero di Montezemolo stigmatizzò la norma che sarebbe dovuta entrare in vigore a fine giugno, e che invece il governo ha annunciato di volere posticipare di sei mesi (a gennaio). Non perchè la maggioranza sia contraria, per carità. Anzi, dice il ministro Claudio Scajola: «Il governo è favorevole a un provvedimento di assoluta validità e importanza per i consumatori, solo che così com'è rischia di portare a vagoni di ricorsi senza giovare ai consumatori». Servirà insomma qualche altro 'tavolo di confronto' con le parti interessate, un po' come sul Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro. Indovinate in quale direzione?
Risulta difficile pensare a qualcosa di più annacquato di quella che è la class action all'italiana. L'emendamento votato nella scorsa finanziaria prevede infatti che possano intentare una causa collettiva di risarcimento solo le associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative, o comitati adeguatamente rappresentativi (per esempio i 'gabbati' dai bond Parmalat che decidano, come hanno fatto, di fare causa). Negli Usa, al contrario, anche un singolo cittadino può intentare un'azione collettiva: spetta poi al giudice, nell'udienza preliminare, valutare quanto quella singola istanza sia rappresentativa degli interessi di una 'classe' di persone. Negli Stati uniti poi, una volta ottenuto il via libera dal giudice, la class action riguarda (tanto nel caso di vittoria che in quello di sconfitta) tutti i cittadini effettivamente coinvolti, e non solo i promotori della causa. Il principio è quello dell'opt out, se non si vuole essere compresi bisogna dichiararlo. In Italia invece il principio è quello dell'opt in: partecipa agli eventuali benefici di una class action, solo chi vi ha effettivamente (e esplicitamente) aderito.
E veniamo a quello che il presidente di Altroconsumo (associazione indipendente di consumatori), Paolo Martinello, giudica «il vero punto debole del modello italiano», e cioè la conclusione dell'azione risarcitoria. Mentre infatti negli Usa è il giudice che, dopo avere valutato l'entità della 'classe', quantifica il risarcimento che l'impresa è tenuta a pagare, nella legge italiana tutta la fase della quantificazione dei danni e dell'erogazione delle somme dovute viene di fatto delegata a un momento successivo a quello della sentenza e rimessa ad una procedura conciliativa: «La legge non è chiara e risulta dunque difficile capire come in pratica il risarcimento potrà avvenire», dice Martinello.
Detto tutto questo, e con la necessaria premessa che negli Usa la class action ha una funzione di regolamentazione del mercato (con lo stato che di fatto delega ai privati la tutela di interessi collettivi) - si pensi ad esempio al «danno punitivo» che un giudice statunitense può comminare (funzione che in Europa dovrebbe essere svolta dagli organismi di vigilanza, antitrust e quant'altro) - il governo italiano pare intenzionare a modificare l'azione collettiva. Anticipava ieri MilanoFinanza che tra le revisioni, potrebbe esserci quella sulla non retroattività del provvedimento: addio dunque alla causa collettiva Parmalat, tanto per dirne una. Protestano le associazioni dei consumatori che oggi sono state convocate dal governo. «Siamo assulutamente contrari a qualsiasi rinvio sulla class action», dicono dal Codacons. Mentre Cittadinzattiva stigmatizza «l'ennesima vittoria delle lobby ai danni dei cittadini consumatori».

 

Mafia e massoni uniti per rallentare i processi a boss, medici, aziende

di Gemma Contin

su Liberazione del 18/06/2008

Otto arresti tra Palermo, Trapani, Agrigento, Roma, Terni e Orvieto, a conclusione della "Operazione Hiram", effettuati dai carabinieri su ordine del giudice per le indagini preliminari Roberto Conti, a seguito di un'inchiesta della Procura distrettuale antimafia diretta da Francesco Messineo su mafia e massoneria «finalizzata al rallentamento dei processi fino alla scadenza dei termini».
Le accuse sono di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari, rivelazione di segreti d'ufficio.
L'operazione, coordinata dall'aggiunto Roberto Scarpinato e dal sostituto della Dda Paolo Guido, andava avanti dal 2006 ed è partita da intercettazioni e dalla segnalazione di alcuni rallentamenti sospetti negli iter giudiziari procedurali e burocratici di processi approdati in Cassazione che riguardavano in particolare un ginecologo palermitano, un imprenditore agrigentino e uno trapanese legato al clan di Mariano Agate. Le perquisizioni e il sequestro di documenti sono ancora in corso e sono stati effettuati anche presso alcuni uffici della Corte di Cassazione.
Dall'inchiesta emergerebbe che alcuni mafiosi, grazie all'aiuto di persone appartenenti a logge massoniche e alla burocrazia giudiziaria, avrebbero ottenuto di ritardare taluni processi in cui erano imputati gli stessi boss, medici, imprenditori, professionisti e altri affiliati alle cosche di Trapani e Agrigento.
Secondo quanto accertato dai magistrati, il ginecologo palermitano Renato Giovanni De Gregorio, 59 anni, condannato in primo e secondo grado per violenza sessuale su una minorenne, avrebbe fatto rallentare il procedimento per arrivare alla prescrizione. Il suo dibattimento è pendente dal 2005 alla Corte Suprema. L'imprenditore agrigentino Calogero Russello, 68 anni, gestore del Grand Hotel Mosè, già finito in carcere nell'operazione "Alta mafia" nella Città dei Templi, dopo una condanna in primo grado con il rito abbreviato, era stato invece assolto in secondo grado, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza rinviando il processo alla Corte d'Appello. Russello, secondo i pm della Dda, grazie all'accordo tra mafia e massoneria sarebbe riuscito a far slittare la trattazione del ricorso della Procura.
Nell'ambito dell'inchiesta, i magistrati hanno anche iscritto nel registro degli indagati un sacerdote, il padre gesuita Ferruccio Romanin, rettore della Chiesa di Sant'Ignazio a Roma, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Anche il religioso, di origini venete, sarebbe coinvolto nell'organizzazione per rallentare i processi e condizionare l'esito di alcuni dei procedimenti.
Gli altri finiti in carcere, oltre al ginecologo palermitano e all'imprenditore agrigentino, sono l'imprenditore Michele Accomando, 60 anni, di Mazara del Vallo, già arrestato per appalti pubblici pilotati; il faccendiere Rodolfo Grancini, 68 anni, di Orvieto, esponente della massoneria umbra; Calogero Licata, 57 anni, ex assessore comunale democristiano di Canicattì; Guido Peparaio, 55 anni, impiegato del Ministero di Giustizia, addetto alla Cancelleria della seconda sezione della Corte di Cassazione, arrestato a Ficulle in provincia di Terni; Nicolò Sorrentino, 64 anni, imprenditore di Marsala; l'agente Francesca Surdo, 35 anni, originaria di Palermo, in attività a Roma presso il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato.
Senza le intercettazioni, precisano gli inquirenti della Dda, non sarebbe stato possibile accertare i reati. Peparaio, secondo quanto si è appreso, avrebbe agito sulle priorità della seconda sezione della Cassazione, facendo slittare o anticipare i ricorsi. Secondo la ricostruzione dell'accusa, un ruolo avrebbe giocato anche l'agente di polizia Surdo. La donna avrebbe compiuto una serie di accessi abusivi al sistema informatico della polizia per fornire al Grancini notizie su processi e indagini in corso.
Si tratta, hanno detto ieri il procuratore capo Messineo e l'aggiunto Scarpinato in una conferenza stampa convocata a Roma nella sede del Comando dei carabinieri di Piazza San Lorenzo in Lucina, di «un patto segreto stretto tra mafia e massoneria contro la giustizia, con il primo obiettivo di ritardare i processi ai boss e a professionisti affiliati, in alcuni casi anche dietro pagamento di cospicue somme di denaro per ottenere l'insabbiamento».
E' una dichiarazione che arriva come un boomerang nel bel mezzo della polemica sul tentativo del governo di dare ai processi iter differenziati e corsie lente o veloci a seconda del rango degli imputati e il ruolo pubblico che essi rivestono. A partire dalla pretesa, reiterata anche in questa legislatura dal premier Silvio Berlusconi - tessera della loggia massonica P2 numero 1816, fascicolo 625 della lista di Licio Gelli ritrovata a Castiglion Fibocchi - con una lettera inviata al presidente del Senato e letta ieri in Aula da Renato Schifani, della sospensione del giudizio per le alte cariche dello Stato.


Emergenza sicurezza:Strage nel mediterraneo


Un gommone della marina maltese raggiunge gli immigrati africani aggrappati alla gabbia di ...

Uno, uno solo. Uno su centocinquanta. Neanche lui sa come ce l'ha fatta. E comunque la sua storia non potrà raccontarla a nessuno, probabilmente ora è rinchiuso in uno di quei «campi» allestiti in Libia coi soldi italiani. Cpt al di là del Mediterraneo. La sua storia, la storia degli altri 149 che non ce l'hanno fatta, s'è comunque venuta a sapere lo stesso. Assomiglia a tante altre, assomiglia a quella del Natale del '96, quando il mare fece «sparire» 300 migranti, o a quella del 19 agosto di due anni fa. Quando l'ennesima «carretta» del mare, si spaccò e 50 clandestini non trovano nulla a cui appigliarsi. La stessa, identica storia: stavolta si parla di un gozzo con dentro, stipati fino all'inverosimile, 150 persone. Forse anche di più. Era partita da Zuwarah, al confine fra Libia e Tunisia, direzione Italia, Lampedusa. A bordo soprattutto egiziani, il superstite ha raccontato di intere famiglie.
All'improvviso, le condizioni metereologiche si sono aggravate. Onde, altissime. Il barcone deve essersi rovesciato. Per chi era a bordo non c'è stato nulla da fare. Uno solo è riuscito ad aggrapparsi, non si sa bene a cosa. La tragedia dovrebbe essere avvenuta il 7 giugno. Se ne parla ora perché le autorità libiche, che hanno raccolto sulle proprie coste i corpi di ventun persone, hanno avvertito il Cairo. Stando alle loro informazioni, a bordo dovevano esserci molti egiziani. Tutti, tranne quei venti già recuperati, inseriti fra i «dispersi». Dispersi in fondo al mare.
L'elenco delle grandi tragedia si arricchisce così di un nuovo capitolo. Che fa passare in secondo piano le altre «piccole» tragedie, che avvengono quotidianamente. Ieri, per esempio. Dopo che erano stati avvistati da un peschereggio, navi militari di Malta sono salpate per andare a recuperare 28 somali che da due giorni erano aggrappati, in mezzo al mare, alle gabbie dove si allevano i tonni. Anche loro vittime di un naufragio, dove hanno perso la vita sei persone, tre bambini.
La nave maltese era uscita da un'ora dal porto di La Valletta quando si è accorta che su un'altra gabbia per tonni, erano aggrappati altri 50 migranti. Sono riusciti a soccorrere anche loro. Così come le motovedette italiane, che hanno portato in salvo, da sabato, altre 400 persone. Ora rinchiuse nel Cpt di Lampedusa.
Ma non è finita. Perchè sul molo di Lampedusa, sempre ieri, è accaduto anche qualcos'altro. E' successo che il vice sindaco leghista dell'isola, Angela Maraventano - che è anche deputata del Carroccio- ha inscenato una manifestazione. Contro l'immigrazione clandestina. S'è presentata col volto avvolto in un chador chiedendo ai capitani delle motovedette un passaggio per Tunisi. L'hanno ignorata. E sono tornati in mare, provando a salvare altre vite.

 

Un cimitero mediterraneo

di Alfredo Marsala

su Il Manifesto del 17/06/2008

L'ennesimo naufragio al largo delle coste libiche fa 40 morti e un centinaio di dispersi. È avvenuto il 7 giugno ma si è coperto solo ieri, nonostante le denunce di alcuni superstiti. Una strage seconda solo a quella di Portopalo nel '96. Anche stavolta la meta era l'Italia, dove ieri sono riusciti ad arrivare in 400. E dove li aspettano cpt ed espulsioni

Quaranta migranti sono stati ripescati cadaveri da militari libici, altri cento risultano ufficialmente dispersi, ma presto il mare potrebbe fare riemergere i loro corpi. Strage, è la parola più utilizzata in questi casi. L'ennesima, nel Canale di Sicilia, il cimitero dei migranti. Ma tutto in realtà era già stato scritto. Nove giorni fa i marinai della nave Sirio, mentre sistemavano sottocoperta i cadaveri di tredici migranti recuperati a largo delle coste della Libia, misero in allarme le capitanerie: «Dal Nordafrica sono partiti alcuni barconi di cui non si hanno più notizie, probabile che siano naufragati per il maltempo». Il manifesto ne diede notizia, ma nessuno se ne preoccupò. Come dieci anni fa per il naufragio di Portopalo, quello della notte di Natale del '96, salvo poi piangere lacrime di coccodrillo cinque anni dopo quando la verità cominciò ad emergere dai resti umani che rimanevano impigliati nelle reti dei pescatori.
Stavolta non è andata così, grazie all'ambasciata egiziana a Tripoli che ha consegnato un rapporto al governo del Cairo dopo aver ricevuto informazioni dai servizi d'intelligence di Gheddafi: i corpi di 40 persone, tutte egiziane, sono stati recuperati in mare e oltre cento tra uomini, donne e bambini risultano dispersi. Il presagio della Sirio s'è avverato. I corpi dei poveri migranti in fuga dalla miserie e dalla fame sarebbero stati inghiottiti dalle onde del canale di Sicilia poco dopo la partenza dal porto di Zuwarah, a sud di Tripoli. Non è ancora chiaro se si trovassero tutti a bordo di uno o più barconi. Secondo le fonti egiziane i migranti si sarebbero imbattuti nel mare grosso a circa cinquanta-sessanta miglia dalla Libia. La zona di mare è la stessa dove i marinai della Sirio, il 7 giugno, issarono a bordo i tredici cadaveri. Da una sommaria ispezione sui corpi l'equipaggio comunicò, prima di giungere a Porto Empedocle, che tre dei tredici cadaveri erano in avanzato stato di decomposizione. «Non fanno parte dello stesso naufragio», dissero i marinai. Ora il quadro sembra più chiaro. E' molto probabile che quei tre migranti ripescati nove giorni fa e trascinati al largo dalle correnti facessero parte dello stesso gruppo di africani rinvenuti cadaveri dai libici, che hanno dovuto rendere pubblica la notizia perché tra i morti c'erano molti egiziani. L'ambasciatore a Tripoli, ricevuta l'informativa lo scorso fine settimana, ha presentato un rapporto al Cairo. E così è emersa questa tragedia che ricorda quelle di Portopalo la notte di Natale di quindici anni fa, quando quasi 300 clandestini morirono annegati tra Malta e la Sicilia, dopo lo scontro tra il cargo libanese Friendship e la motonave Yohan.
Dal naufragio al largo della Libia sarebbero sopravvissute solo due persone: un cittadino del Bangladesh e un egiziano. Quest'ultimo ha fornito alcuni dettagli all'ambasciata egiziana, raccontando che si trovava a bordo di una imbarcazione con circa 150 persone, un cinquantina dei quali suoi connazionali, originari della città di Zagazig, sul Delta del Nilo. Wael Nagui Abdel Mutagali ha riferito di essere stato soccorso da una nave e che ogni migrante aveva dovuto pagare 2000 dollari a uno scafista egiziano che vive in Libia come prezzo per raggiungere l'Italia. Le autorità libiche non hanno dato dettagli ma secondo il sopravvissuto a parte il gruppo di egiziani tra i dispersi ci sarebbero molti migranti provenienti dal Marocco, dell'Algeria e dal Bangladesh.
Non c'è traccia intanto dei sei migranti che erano a bordo del barcone che due giorni fa si è spezzato scontrandosi contro le gabbie dei tonni, a 56 miglia a sud di Malta. Tra i dispersi ci sarebbero alcuni bambini, come riferito dagli altri 28 somali soccorsi dal peschereccio italiano Gambero mentre erano aggrappati alle gabbie. L'equipaggio li ha issati a bordo dopo aver calato due gommoni tra le acque molto agitate e poi li ha consegnati a una motovedetta della marina maltese, che ha poi soccorso altri 56 migranti che si trovavano su due barconi (28 persone in ciascun natante) a circa 55 miglia a sud.
Col bel tempo sono ripresi i viaggi della speranza verso Lampedusa dove, a bordo di sette diverse imbarcazioni, sono giunti in totale 404 clandestini in appena 24 ore, mandando in tilt il sistema di accoglienza. Anche ieri avvistamenti e sbarchi si sono susseguiti durante la giornata. Tre le imbarcazioni fermate a sud di Lampedusa: un gommone di otto metri con 46 migranti, un natante con 45 persone (tra cui sette bambini) affondato subito dopo che gli extracomunitari sono stati trasbordati su una motovedetta della guardia di finanza, un altro barcone con 46 a bordo. Un mini sbarco si è registrato anche sull'isola di Marettimo, nell'arcipelago delle Egadi: una zona decisamente più a nord di quelle solitamente battute dalle rotte degli immigrati. Un gruppo di sei migranti è stato invece intercettato a terra da una pattuglia della guardia di finanza.
Anche al largo di Malta, altra meta degli sbarchi di immigrati, la situazione rimane d'allerta: ieri un peschereccio ha trainato una gabbia per tonni alla quale si trovavano aggrappati 26 clandestini, a circa 75 miglia a sud dell'isola, ai confini con le acque territoriali libiche.

Naufragio di immigrati a Malta. Sei le persone che mancano all' appello

Si spezza un barcone, bimbi somali dispersi

di Alfio Sciacca

su Corriere della Sera del 16/06/2008

Cambiano le coordinate e il bilancio delle vittime ma la tragedia si ripete secondo un triste copione che ha come scenario sempre il Canale di Sicilia. Ancora un naufragio lungo la rotta dei clandestini. E' avvenuto 56 miglia a sud di Malta e ci sarebbero sei morti anche se ufficialmente si parla ancora di dispersi. Tra loro anche alcuni bambini. Questo almeno stando al racconto dei superstiti: 28 somali che sono riusciti a salvarsi aggrappandosi alle grosse gabbie per l' allevamento dei tonni. Per l' ennesima volta ad evitare un bilancio ancor più pesante ci sono proprio queste famose gabbie, che si stanno trasformando in enormi ciambelle di salvataggio in mare aperto che i clandestini inseguono come un miraggio di salvezza quando sono ancora lontanissimi dalle coste italiane. Come è successo anche ieri. Difficile avere particolari sulla tragedia perché a procedere in questo caso sono state esclusivamente le autorità maltesi. E a differenza di altre volte non è stato chiesto il supporto della nostra Marina. «Non ci è giunta alcuna richiesta di collaborazione - affermano dal comando generale delle capitanerie di porto - abbiamo solo un Sos partito da un telefono satellitare da una zona a circa 50 miglia da Malta ed è presumibile che sia stato lanciato da questo barcone che poi ha fatto naufragio come potrebbe essere partito da altri natanti che sono in zona e sono pure in difficoltà». Stando anche a quello che riferiscono alcuni siti internet di Malta i clandestini avrebbero avvistato un peschereccio italiano, il «Gambero», con al traino la grossa gabbia dei tonni. Un' ancora di salvezza nel mare in tempesta quando erano forse ad uno o due giorni di viaggio. Ma nel momento in cui hanno cercato di avvicinarsi, proprio a causa delle pessime condizioni del mare, sono andati a sbattere violentemente contro la struttura galleggiante della gabbia. L' impatto è stato così violento che la carretta del mare si è spezzata. I clandestini sono finiti in acqua e quelli che non sapevano nuotare e i più piccoli non hanno avuto scampo. Dal peschereccio sono stati lanciati anche due gommoni che, assieme alla gabbia dei tonni, hanno evitato che il bilancio della tragedia fosse ben più pesante. Gli immigrati sono stati poi tirati a bordo del peschereccio fino a quando in zona non è arrivata una motovedetta maltese che li ha trasferiti sulla terra ferma. Le ricerche dei dispersi sono andate avanti per ore ma senza alcun esito. La tragedia arriva a termine di quella che per Lampedusa è stata una giornata da bollino rosso. In una sequenza ininterrotta di sbarchi ieri sono arrivati oltre 400 immigrati. In particolare un barcone con 79 clandestini, con a bordo 18 donne una delle quali incinta, era col motore in panne e ormai in balia delle onde quando è stato intercettato a 20 miglia dalle coste italiane. Dopo i controlli medici una parte degli immigrati sono risultati affetti da scabbia. Sempre ieri, nella stessa zona dell' ultimo naufragio, la marina militare maltese ha soccorso altri due barconi in difficoltà per le pessime condizioni del mare. Per protestare contro questa nuova impennata di sbarchi ieri mattina il vice sindaco di Lampedusa, la senatrice della Lega Nord Angela Maraventano ha inscenato una singolare protesta. Si è presentata al molo chiedendo «un passaggio per andare a Tripoli». Vestita col velo islamico «per rispetto degli usi e i costumi di quei popoli» è pronta a «fare il viaggio all' incontrario verso la Libia. Ho chiesto alla capitaneria e alla Guardia di Finanza e non me lo consentono. Ma io voglio farlo comunque e ora chiederò aiuto a qualche peschereccio». 400 *** Gli sbarchi di clandestini registrati a Lampedusa nella giornata di ieri. Tra questi, un barcone con 18 donne, di cui una incinta *** 28 *** Gli immigrati che sono riusciti a salvarsi aggrappandosi alle gabbie dei tonni. Sono, invece, sei i morti * * * Il precedente Aggrappati alle reti Questa foto fece il giro del mondo. Ventisette immigrati salvati al largo di Malta dopo essere rimasti aggrappati alle reti dei tonni per un giorno e una notte. Era il maggio dello scorso anno. Per i clandestini fu un' odissea: erano partiti dalla Libia, da Al Zuara e rimasero 10 giorni in mare. Con il naufragio la loro sorte sembrava segnata: ma quando videro passare le gabbie trainate dal rimorchiatore si buttarono su quella ciambella di salvataggio che li strappò alla morte Le polemiche Fu lo stesso comandante del rimorchiatore maltese a lanciare l' allarme sulla presenza di immigrati in mare. Ma prima che la notizia fosse confermata e che qualcuno si muovesse in loro soccorso passarono 24 ore.

L'ennesima strage, ennesima provocazione Fino a quando tollereremo?

Quale emergenza sicurezza, a pagare sono i migranti. Bambini in testa

Fulvio Vassallo Paleologo*
Ancora una tragedia del mare, a sud di Malta, frutto delle politiche di sbarramento e delle azioni di contrasto dell'immigrazione clandestina, con il pattugliamento avviato nel Canale di Sicilia dall'Agenzia Frontex il 18 maggio. Rimane l'incapacità dei paesi europei di stabilire regole certe nei rapporti con i paesi di transito in modo da garantire il diritto di asilo ed i diritti fondamentali della persona. Manca una qualsiasi collaborazione a livello europeo nella distribuzione degli oneri derivanti dall'accoglienza di alcune migliaia di migranti, in gran parte richiedenti asilo, ed il cinismo dei rappresentanti della destra italiana giunge fino al punto di oltraggiare i cadaveri delle vittime di queste stragi, promuovendo iniziative farsesche, demagogiche e apertamente provocatorie. Fino a quando l'opinione pubblica continuerà a tollerare tutto questo?
Mentre l'attenzione dei media è tutta incentrata sulla criminalizzazione dei migranti irregolari e sull'introduzione del reato di immigrazione clandestina, non si percepisce quanto le misure annunciate dai governanti italiani siano prive di qualsiasi effetto dissuasivo e, come i pattugliamenti congiunti in acque internazionali, finiscano solo per determinare altre tragedie ed altri lutti. Le rotte sono sempre più pericolose, per sfuggire ai controlli, oltre che su Lampedusa si punta verso Malta, le imbarcazioni più piccole ed insicure, gli scafisti , con la complicità della polizia di Gheddafi, lasciano partire dalla Libia mezzi "a perdere", senza neppure rischiare la vita, mentre alcuni magistrati e la polizia italiana non trovano di meglio che perseguire i poveracci che sono stati fotografati mentre si alternavano al timone.
La sanzione penale degli interventi di salvataggio ritarda gli equipaggi dei pescherecci di fronte alle chiamate di soccorso, e regole di ingaggio del tutto arbitrarie e contrarie alle Convenzioni internazionali, costringono i mezzi della marina italiana ad intervenire in acque che non sarebbero di loro competenza, qualche volta troppo tardi. Ed intanto si allunga la lista dei morti che sono solo una piccola parte dei dispersi e delle vittime delle tante tragedie che rimangono senza neppure una cronaca. E neppure il diritto all'esame del Dna per dare una identità alle vittime, mentre in Italia si vorrebbe introdurre questo esame al solo scopo di scoraggiare i ricongiungimenti familiari.
La violazione dei diritti umani dei migranti passa anche attraverso gli accordi di riammissione. Dal 1999 l'Italia cerca di concludere un accordo di riammissione con la Libia, anche se si tratterebbe di "deportazioni" vere e proprie in quanto la quasi totalità dei migranti irregolari che giungono in Italia dalla Libia non sono cittadini libici ed una buona parte di loro, come dovrebbe ricordare anche il sottosegretario Mantovano, ottiene il riconoscimento di uno status di protezione internazionale. Come è noto, la Libia non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e non riconosce il diritto di asilo o altre forme di protezione internazionale. Eppure il precedente governo Berlusconi realizzò dall'ottobre del 2004 al marzo del 2005 la deportazione di un migliaio di migranti, direttamente da Lampedusa verso la Libia, finanziando sino alla fine del 2005 migliaia di rimpatri dalla Libia verso i paesi di origine, prassi interrotte solo davanti alla minaccia di una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo.
Adesso Gheddafi pretende che l'Europa e l'Italia onorino le promesse di finanziamento e nell'attesa che il Parlamento Europeo approvi la direttiva sui rimpatri sta facendo partire migliaia di persone, abbandonandole al loro destino in mare, proprio per ricattare i governi europei. La proposta di Sarkozy, impegnato per una Unione euromediterranea, che dovrebbe servire a coinvolgere i paesi di transito nella guerra all'immigrazione "illegale", ha già ricevuto un secco no da parte della Libia e questo potrebbe anche spiegare l'intensificarsi dei tentativi di sbarco verso Malta e Lampedusa, Nessuno si accorge che le principali vittime di queste politiche di militarizzazione dei controlli di frontiera sono i richiedenti asilo, come i Somali annegati ieri a Malta, tra i quali un numero crescente di donne e minori, e in Italia sembra ancora prevalere la convinz

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L'umanità negata

di Valentino Parlato

su Il Manifesto del 17/06/2008

Quaranta cadaveri e un centinaio di dispersi, che non troveremo mai, nel mare di Sicilia. Persone, esseri umani, che fuggono dai loro paesi, raggiungono la costa meridionale del Mediterraneo. È una storia di sterminio di massa che si ripete e continuerà. Di chi è la responsabilità di questa strage continua? Nostra, della nostra globalizzazione aperta a tutti i movimenti di capitali, ma chiusa - fino all'omicidio di massa - alle persone, a quelli che non riescono a vivere nei loro paesi e a rischio di morte tentano di sbarcare nel nostro mondo ricco e benestante. Magari solo per mendicare, ma in un paese ricco la mendicità può dare da vivere.
È una tragedia, ma essendo una tragedia di poveracci non diventa mai un nostro problema. Al massimo si cerca di eludere il problema con più vigilanza, con sbarramenti di motovedette e guardie.
Questi disperati migranti non c'erano un tempo o il fenomeno era meno rilevante. Oggi queste popolazioni sono più povere, alla disperazione, perché nei loro paesi la popolazione è cresciuta e perché le loro produzioni sono state distrutte dalla nostra crescita di produttività. Perché la nostra globalizzazione è stata quella dei paesi benestanti, quasi il club dei signori. E - va detto - nei nostri paesi benestanti la globalizzazione finanziaria e mercantile ha accresciuto il distacco tra poveri e ricchi. E i nostri poveri, quelli che lavorano a salario a tempo determinato, o in nero, temono l'arrivo di altri poveri, ancora più poveri e più disposti a lasciarsi sfruttare per un tozzo di pane.
Gli imperi coloniali non ci sono più, ma viene da dire che siamo andati al peggio. Non ci sono più le colonie, ma c'è la colonizzazione volontaria di tutti quelli che nei loro paesi non riescono più a vivere e tentano di farsi individualmente colonizzare nei nostri paesi ricchi.
Questi movimenti migratori sono diventati una costante tragica dei nostri tempi e quel che sorprende è che non ci sia nessuna iniziativa non dico democratica, ma almeno umanitaria. Pensiamo solo a rafforzare le frontiere e basta. Tacciono i governi, tacciono anche i partiti di opposizione e qui da noi tace anche la Chiesa cattolica, quelli che tentano di arrivare mica sono cristiani!
Questa tragedia degli emigranti - donne, bambini e uomini condannati ad affogare nel nostro bel Mediterraneo - non sembra toccare la sensibilità delle nostre società, dei nostri politici, dei nostri intellettuali. Un'insensibilità che segna il nostro grado di imbarbarimento.

«In quel cpt una stanza dei pestaggi»

di Orsola Casagrande

su Il Manifesto del 17/06/2008

I racconti dei migranti usciti dal centro di corso Brunelleschi a Torino

Non si respira una bella aria a Torino. Sali sull'autobus e l'unica cosa di cui si parla sono i rischi che si corrono sui tram e sui pullman. Rischi? «Non hai sentito? - dice una giovane donna - qui ormai è il Far West». L'autobus è il 67, lo stesso dove qualche giorno fa i vigili urbani hanno spadroneggiato con fare effettivamente un po' da cowboys, intimando ai cittadini stranieri presenti di scendere, dividendo uomini da donne e esibendosi in controlli accompagnati da frasi come «la pacchia è finita». E a chi mostrava la carta d'identità italiana, «non ce ne frega nulla della vostra carta italiana, questo non è più il paese delle meraviglie».
Al mercato di Porta Palazzo, storico quartiere delle differenze e per questo uno dei luoghi più ricchi e interessanti, il clima di questi giorni si traduce in poca voglia di parlare da parte dei cittadini stranieri. Che però non riescono a trattenersi più di tanto, perché di voglia di parlare ne hanno molta. «Non capiamo - dice un giovane fruttivendolo marocchino, Abdul - ci sembrava che tutto questo odio potesse finire, anzi credevamo che fosse se non finito almeno un po' contenuto e invece è riesploso». E in modo violento. Siccome qui quasi tutti hanno subito l'umiliante esperienza di una detenzione nei cpt italiani, è facile sapere cosa sta accadendo dentro corso Brunelleschi come in altre galere. La morte del giovane detenuto tunisino a cui sarebbero stati negati i soccorsi è avvenuta soltanto due settimane fa, ma è già stata dimenticata. Non qui a Porta Palazzo. «La Croce Rossa non ti aiuta - dice M. - se stai male puoi sgolarti ma se non hanno voglia di venire non vengono. Il medico ti visita solo se gli va». L'inchiesta sulla morte del giovane è aperta. In questi giorni dovrebbe essere depositata l'autopsia che servirà a chiarire le cause della morte. Quelle mediche. Perché poi rimane il fatto dei soccorsi. E su questo il magistrato dovrà fare chiarezza. Le testimonianze dei detenuti che hanno assistito impotenti alla morte del loro compagno sono chiare. «Abbiamo urlato ma non è venuto nessuno». Chi c'era, chi ha chiesto aiuto, è stato prontamente deportato, espulso nei giorni immediatamente successivi alla morte. Gli abusi e le violenze continuano. Lo conferma il racconto due ragazzi appena usciti dal centro di corso Brunelleschi. «Siamo trattati come bestie - dice A., marocchino - poi quando alla polizia gira ci prendono e ci portano in una stanza e lì ci picchiano». Questa stanza dei pestaggi è ricorrente nelle storie di tanti e non solo nel centro torinese. Anche negli altri cpt infatti i detenuti raccontano di essere stati portati ammanettati in una stanza e lì pestati a sangue. Fare denuncia è difficile e comunque molto spesso una denuncia non ha seguito. Si ferma, si arena nei tribunali italiani. Muore. Lo conferma l'avvocato Gianluca Vitale che proprio in questi giorni ha depositato l'ennesima denuncia. «Il giovane marocchino che rappresento ormai è stato espulso. La denuncia riguarda le botte prese mentre era ammanettato», dice Vitale. Intanto, nel silenzio dei media, le espulsioni dei testimoni di quella tragica notte sono proseguite. Un altro giovane tunisino di ventinove anni racconta al telefono di non avere «più speranza. Dopo cinque anni in Italia, senza permesso, costretto a arrangiarmi come meglio potevo, dopo tre anni di carcere ho deciso che è meglio tornare al mio paese. Non mi aspetta una vita serena, ma di stare in Italia non me la sento». E' stato lui a trovare il giovane compagno morto due settimane fa. «E per fortuna - dice - che lo conoscevo da quando eravamo al paese, perché lui aveva detto di essere marocchino e oggi non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di essere sepolto a casa sua, dove sono i suoi familiari». Sulle condizioni del centro il giovane dice che «purtroppo solo noi che viviamo qui dentro sappiamo cosa significa, l'umiliazione quotidiana, la violenza anche psicologica perché non c'è solo la violenza fisica. In fondo eravamo venuti qui inseguendo un sogno, quello di vivere meglio, trovare un lavoro. Speravamo di trovare qui quella possibilità di realizzarci che al nostro paese non ci è stata data. Non è stato così. La vita normale che sognavamo non si è realizzata».

 

Reato di clandestinità,la Ue contro l'Italia

Il commissario Barrot: «Non si possono aggravare le pene». I numeri bocciano il decreto

Non è possibile aggravare la pena a causa della presenza irregolare, è contrario al diritto europeo»: lo ha affermato ieri il neo commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot, durante la sua audizione al parlamento europeo, a proposito dell'immigrazione clandestina. Poi, interrogato dai giornalisti, Barrot ha spiegato meglio il suo punto di vista: «Mi riferivo ai cittadini europei, in ogni caso per quanto riguarda i cittadini non Ue questa pone comunque un problema. Teoricamente non si può aggravare una pena» se ci si riferisce ai cittadini non Ue mentre «si può prevedere il rimpatrio degli immigrati dopo aver scontato la pena secondo le legislazioni nazionali» ha spiegato Barrot. Le dichiarazioni del commissario (che cadono fra l'altro alla vigilia della discussione all'Europarlamento sul

L'umanità negata

di Valentino Parlato

su Il Manifesto del 17/06/2008

Quaranta cadaveri e un centinaio di dispersi, che non troveremo mai, nel mare di Sicilia. Persone, esseri umani, che fuggono dai loro paesi, raggiungono la costa meridionale del Mediterraneo. È una storia di sterminio di massa che si ripete e continuerà. Di chi è la responsabilità di questa strage continua? Nostra, della nostra globalizzazione aperta a tutti i movimenti di capitali, ma chiusa - fino all'omicidio di massa - alle persone, a quelli che non riescono a vivere nei loro paesi e a rischio di morte tentano di sbarcare nel nostro mondo ricco e benestante. Magari solo per mendicare, ma in un paese ricco la mendicità può dare da vivere.
È una tragedia, ma essendo una tragedia di poveracci non diventa mai un nostro problema. Al massimo si cerca di eludere il problema con più vigilanza, con sbarramenti di motovedette e guardie.
Questi disperati migranti non c'erano un tempo o il fenomeno era meno rilevante. Oggi queste popolazioni sono più povere, alla disperazione, perché nei loro paesi la popolazione è cresciuta e perché le loro produzioni sono state distrutte dalla nostra crescita di produttività. Perché la nostra globalizzazione è stata quella dei paesi benestanti, quasi il club dei signori. E - va detto - nei nostri paesi benestanti la globalizzazione finanziaria e mercantile ha accresciuto il distacco tra poveri e ricchi. E i nostri poveri, quelli che lavorano a salario a tempo determinato, o in nero, temono l'arrivo di altri poveri, ancora più poveri e più disposti a lasciarsi sfruttare per un tozzo di pane.
Gli imperi coloniali non ci sono più, ma viene da dire che siamo andati al peggio. Non ci sono più le colonie, ma c'è la colonizzazione volontaria di tutti quelli che nei loro paesi non riescono più a vivere e tentano di farsi individualmente colonizzare nei nostri paesi ricchi.
Questi movimenti migratori sono diventati una costante tragica dei nostri tempi e quel che sorprende è che non ci sia nessuna iniziativa non dico democratica, ma almeno umanitaria. Pensiamo solo a rafforzare le frontiere e basta. Tacciono i governi, tacciono anche i partiti di opposizione e qui da noi tace anche la Chiesa cattolica, quelli che tentano di arrivare mica sono cristiani!
Questa tragedia degli emigranti - donne, bambini e uomini condannati ad affogare nel nostro bel Mediterraneo - non sembra toccare la sensibilità delle nostre società, dei nostri politici, dei nostri intellettuali. Un'insensibilità che segna il nostro grado di imbarbarimento.

«In quel cpt una stanza dei pestaggi»

di Orsola Casagrande

su Il Manifesto del 17/06/2008

I racconti dei migranti usciti dal centro di corso Brunelleschi a Torino

Non si respira una bella aria a Torino. Sali sull'autobus e l'unica cosa di cui si parla sono i rischi che si corrono sui tram e sui pullman. Rischi? «Non hai sentito? - dice una giovane donna - qui ormai è il Far West». L'autobus è il 67, lo stesso dove qualche giorno fa i vigili urbani hanno spadroneggiato con fare effettivamente un po' da cowboys, intimando ai cittadini stranieri presenti di scendere, dividendo uomini da donne e esibendosi in controlli accompagnati da frasi come «la pacchia è finita». E a chi mostrava la carta d'identità italiana, «non ce ne frega nulla della vostra carta italiana, questo non è più il paese delle meraviglie».
Al mercato di Porta Palazzo, storico quartiere delle differenze e per questo uno dei luoghi più ricchi e interessanti, il clima di questi giorni si traduce in poca voglia di parlare da parte dei cittadini stranieri. Che però non riescono a trattenersi più di tanto, perché di voglia di parlare ne hanno molta. «Non capiamo - dice un giovane fruttivendolo marocchino, Abdul - ci sembrava che tutto questo odio potesse finire, anzi credevamo che fosse se non finito almeno un po' contenuto e invece è riesploso». E in modo violento. Siccome qui quasi tutti hanno subito l'umiliante esperienza di una detenzione nei cpt italiani, è facile sapere cosa sta accadendo dentro corso Brunelleschi come in altre galere. La morte del giovane detenuto tunisino a cui sarebbero stati negati i soccorsi è avvenuta soltanto due settimane fa, ma è già stata dimenticata. Non qui a Porta Palazzo. «La Croce Rossa non ti aiuta - dice M. - se stai male puoi sgolarti ma se non hanno voglia di venire non vengono. Il medico ti visita solo se gli va». L'inchiesta sulla morte del giovane è aperta. In questi giorni dovrebbe essere depositata l'autopsia che servirà a chiarire le cause della morte. Quelle mediche. Perché poi rimane il fatto dei soccorsi. E su questo il magistrato dovrà fare chiarezza. Le testimonianze dei detenuti che hanno assistito impotenti alla morte del loro compagno sono chiare. «Abbiamo urlato ma non è venuto nessuno». Chi c'era, chi ha chiesto aiuto, è stato prontamente deportato, espulso nei giorni immediatamente successivi alla morte. Gli abusi e le violenze continuano. Lo conferma il racconto due ragazzi appena usciti dal centro di corso Brunelleschi. «Siamo trattati come bestie - dice A., marocchino - poi quando alla polizia gira ci prendono e ci portano in una stanza e lì ci picchiano». Questa stanza dei pestaggi è ricorrente nelle storie di tanti e non solo nel centro torinese. Anche negli altri cpt infatti i detenuti raccontano di essere stati portati ammanettati in una stanza e lì pestati a sangue. Fare denuncia è difficile e comunque molto spesso una denuncia non ha seguito. Si ferma, si arena nei tribunali italiani. Muore. Lo conferma l'avvocato Gianluca Vitale che proprio in questi giorni ha depositato l'ennesima denuncia. «Il giovane marocchino che rappresento ormai è stato espulso. La denuncia riguarda le botte prese mentre era ammanettato», dice Vitale. Intanto, nel silenzio dei media, le espulsioni dei testimoni di quella tragica notte sono proseguite. Un altro giovane tunisino di ventinove anni racconta al telefono di non avere «più speranza. Dopo cinque anni in Italia, senza permesso, costretto a arrangiarmi come meglio potevo, dopo tre anni di carcere ho deciso che è meglio tornare al mio paese. Non mi aspetta una vita serena, ma di stare in Italia non me la sento». E' stato lui a trovare il giovane compagno morto due settimane fa. «E per fortuna - dice - che lo conoscevo da quando eravamo al paese, perché lui aveva detto di essere marocchino e oggi non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di essere sepolto a casa sua, dove sono i suoi familiari». Sulle condizioni del centro il giovane dice che «purtroppo solo noi che viviamo qui dentro sappiamo cosa significa, l'umiliazione quotidiana, la violenza anche psicologica perché non c'è solo la violenza fisica. In fondo eravamo venuti qui inseguendo un sogno, quello di vivere meglio, trovare un lavoro. Speravamo di trovare qui quella possibilità di realizzarci che al nostro paese non ci è stata data. Non è stato così. La vita normale che sognavamo non si è realizzata».

 

Reato di clandestinità,la Ue contro l'Italia

Il commissario Barrot: «Non si possono aggravare le pene». I numeri bocciano il decreto

Non è possibile aggravare la pena a causa della presenza irregolare, è contrario al diritto europeo»: lo ha affermato ieri il neo commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot, durante la sua audizione al parlamento europeo, a proposito dell'immigrazione clandestina. Poi, interrogato dai giornalisti, Barrot ha spiegato meglio il suo punto di vista: «Mi riferivo ai cittadini europei, in ogni caso per quanto riguarda i cittadini non Ue questa pone comunque un problema. Teoricamente non si può aggravare una pena» se ci si riferisce ai cittadini non Ue mentre «si può prevedere il rimpatrio degli immigrati dopo aver scontato la pena secondo le legislazioni nazionali» ha spiegato Barrot. Le dichiarazioni del commissario (che cadono fra l'altro alla vigilia della discussione all'Europarlamento sulla direttiva rimpatri) sono comunque una chiara critica al decreto italiano sulla sicurezza in aula in questi giorni. Un altro colpo al decreto sicurezza, dopo quello assestato sui numeri dagli economisti de Lavoce.info che hanno condotto un'analisi impietosa rapportando i numeri italiani e quelli europei. Ecco l'analisi tratta da redattoresociale.com .

La vera cifra del pacchetto sicurezza è l'accanimento contro lo straniero. Lo si evince dal percorso verso un diritto penale del comportamento, «che si manifesta appieno nel nuovo reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato». E' questa la sintesi estrema di un articolo pubblicato su lavoce.info, a firma Alberto Alessandri (docente di Diritto Penale presso facoltà di Giurisprudenza dell"Università Bocconi di Milano) ed Elena Garavaglia (dottoranda in Diritto dell'Impresa presso la stessa Università Bocconi). In un confronto superficiale con gli altri paesi d'Europa, i due autori notano che le sanzioni per lo più previste sono pene pecuniarie e sanzioni amministrative. Diverse, dunque, da quelle detentive che il governo italiano intende adottare. E che oltretutto si riveleranno un'arma spuntata per l'impossibilità di applicarle.
«Il "pacchetto sicurezza" approvato dal Consiglio dei ministri il 21 maggio si articola in diversi provvedimenti - affermano -. La nozione di "sicurezza" che il legislatore adotta, per identificare il tratto unificante dell'intervento, è molto ampia e disomogenea».
«Prevale l'attenzione al fenomeno dell'immigrazione clandestina - si nota - ma si affiancano interventi sulla guida in stato di ebbrezza, si ampliano i casi di giudizio direttissimo, si rafforzano i poteri dei sindaci, specie in materia di controllo del territorio; si interviene sul sistema delle misure di prevenzione, in particolare sul versante processuale. La "sicurezza" risulta quindi definita più quale "rassicurazione", ovvero un'asserita risposta alle paure diffuse nella popolazione rispetto alla micro-criminalità, quella "da strada", senza un reale filo rosso che possa legare le misure di contenimento dei diversissimi fenomeni considerati. Una serie di provvedimenti tampone, che si innestano sulla legislazione previgente, con più che prevedibili problemi di raccordo. E tutti segnati dalla distribuzione a piene mani di nuovi reati, inasprimenti di pene, restrizione dei poteri discrezionali del giudice. Un esercizio di "legge e ordine", insomma».
Per i due autori, «l'accanimento nei confronti dello straniero è la vera cifra, anche sul piano simbolico e comunicativo, dei provvedimenti. E nella visione di uno Stato che manifesta la sua sovranità nell'esclusione, "straniero" è opposto a cittadino: comprende dunque anche le persone appartenenti a paesi della Unione Europea, anch'essi barbari.
«Questo sotterraneo, inarrestabile percorso verso il diritto penale del "comportamento" - aggiungono - si manifesta appieno nel nuovo reato di "ingresso illegale nel territorio dello Stato", contenuto nel disegno di legge all'articolo 9, e punito con la pena da sei mesi a quattro anni. Si sanziona anche con la revoca dell'autorizzazione chi trasferisce denaro per conto di soggetti "privi di un titolo di soggiorno" (articolo 17). E si punisce ancora chi affitta alloggi a stranieri irregolari (articolo 5 del Dl n. 92/2008). Alle obiezioni si risponde sprezzantemente che anche altri paesi prevedono come reato la condotta di ingresso illegale».
E a tal proposito l'articolo in questione va a vedere proprio cosa succede ai clandestini negli altri paesi. E in questo contesto per gli autori, anche a un raffronto superficiale, i conti non tornano.
«L'inglese Immigration Act del 1971 - ricordano - prevede una serie di condotte che si possono apparentare, in ben diversa articolazione, al nostro caso: ma si prevede solo la pena della multa o l'"imprisonment for not more than six months", mentre pene maggiori sono riservate a chi facilita il transito, la tratta delle persone. La Francia sanziona con la reclusione di un anno e la multa di 3.750 euro la condotta di ingresso e permanenza in assenza dei documenti previsti e stabilisce la possibilità di vietare al condannato l'ingresso e il soggiorno in Francia per una durata non superiore a tre anni. Anche la Spagna, che ha subito un'ondata di immigrazione violenta, con la "‘Ley Organica" 4/2000, e successive modifiche, ha foggiato uno strumento punitivo: ma lo ha fatto impiegando solo sanzioni amministrative e graduando un ventaglio di condotte a seconda della loro gravità . In Germania la normativa sull'immigrazione del 30 luglio 2004 è composta da due atti a seconda della loro applicazione a cittadini di paesi dell'Unione o extracomunitari. Per questi ultimi sono previste pene pecuniarie in alternativa alla reclusione fino a un anno, rispetto a un ventaglio di ipotesi differenziate. La Grecia, con la legge 2910 del 2001, ha previsto un reato per l'introduzione clandestina, ma con una pena alternativa, pecuniaria o detentiva, quest'ultima prevista nella misura di tre mesi nel minimo. E si potrebbe proseguire, trovando puntuali conferme della grave distonia delle norme che ora si progettano».
Distonie che, per gli autori, aumentano considerando l'effettività delle norme. «Nonostante la difficile comparabilità delle statistiche giudiziarie - si afferma -qualche dato è significativo e sembra dimostrare un'applicazione molto limitata della fattispecie di immigrazione clandestina a favore dei provvedimenti di espulsione». In Inghilterra, si ricorda, secondo le statistiche dell'Home Office, nel periodo gennaio - ottobre 2006 sono stati processati davanti a una "Magistrates' Court" 868 soggetti; di questi, 676 individui sono stati dichiarati colpevoli. La normativa inglese è però ricca di fattispecie differenziate e i numeri si riducono notevolmente considerando solo l'ipotesi di "Illegal entry in breach of a deportation order or without leave": 90 persone processate e 71 dichiarate colpevoli.
Per la Germania le statistiche ufficiali del Bundeskriminalamt riportano solo i dati di persone sottoposte a investigazioni per il reato di "Smuggling of foreigns into federal territory" e indicano 3.820 soggetti coinvolti nel 2005. Per la Francia, infine, l'"Annuaire statistique de la Justice" del ministero della Giustizia riporta 4.186 condanne nel 2005; «anche in questo caso però i dati non riguardano solo il reato di immigrazione clandestina ma comprendono diverse altre violazioni», si precisa.
Ma tornando all'Italia, altre perplessità collegate all'introduzione di un reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato concernono i costi, sostanziali e processuali, per la concreta applicazione della norma e la sua effettiva portata deterrente. «Basti considerare i numeri relativi ai soggetti clandestini nel nostro paese - si nota -: avere dati ufficiali è sostanzialmente impossibile, ma la stima più recente indica in 760mila la quota di stranieri irregolari presenti sul territorio italiano. Ancora più interessante la valutazione effettuata nella relazione tecnica del disegno di legge n. 733/2008, secondo cui il numero di stranieri entrati illegalmente in Italia nell'anno 2007 ammonta a circa 54.500».
Concludono gli autori: «Il fenomeno dell'immigrazione clandestina, come ha ricordato la Commissione europea, è assai complesso e richiede attenzione e molteplicità di interventi, con informazione, razionalità e "valutazione degli effetti dei provvedimenti", assunti sempre nel pieno rispetto dei diritti umani. Se il governo italiano intende invece dare un segnale, come è stato detto, a parte la sostanziale immoralità e incostituzionalità di usare lo strumento penale, si tratta di un segnale affidato a un'arma spuntata per la pratica impossibilità di applicare la norma, che porterebbe un enorme aggravio del carico processuale; per l'impossibilità di stabilire la data di ingresso, se non in flagranza alla frontiera; per la scriminante dello stato di necessità per chi arriva su barche in pericolo di affondare; e via dicendo. Nel contempo ogni persona percepita come "straniero" diverrà un sospetto criminale».
Redattore sociale

Liberazione 17/06/2008

 

 

Il governo pensa ad ammorbidire le sanzioni

di S. F.

su Il Manifesto del 12/06/2008

«Un'emergenza nazionale». I politici gridano all'orrore, ma è difficile non ravvisare nelle dichiarazioni che ieri hanno seguito la strage sul lavoro a Mineo - come nota Pietro Mercandelli, presidente dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro (Anmil) - «le consuete parole di cordoglio e le inutili e beffarde buone intenzioni».
A novembre 2006, 4 lavoratori sono morti a Campello sul Clitumno nell'esplosione della Umbria Olii; a luglio 2007, 5 sono stati i morti per l'esplosione nello stabilimento Molino Cordero di Fossano; a dicembre 2007, i 7 morti della ThyssenKrupp; poi, i 5 di Molfetta. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiede «controlli stringenti per spezzare la drammatica catena di morti sul lavoro». Ma dopo la quinta tragedia sul lavoro nell'arco di un anno (senza contare la silenziosa strage quotidiana dei 'tre morti al giorni') cosa fa la politica, e soprattutto il governo, oltre a parlare e gridare allo scandalo?
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha convocato un incontro d'urgenza, oggi, con le parti sociali, «perchè diventa sempre più urgente la promozione in Italia di un piano di intensa collaborazione tra le parti sociali e le istituzioni, per diffondere condizioni di sicurezza in tutti i luoghi di lavoro, attraverso investimenti in prevenzione, formazione e informazione». Sacrosanto, non fosse che, magari non oggi, probabilmente domani, si inizierà a anche a discutere del Testo unico sulla sicurezza del lavoro varato dal governo Prodi e che Sacconi ha in più occasioni annunciato di volere riscrivere. Obiettivo: ammorbidire un apparato sanzionatorio che era già stato frutto di un compromesso e che alle imprese mai è piaciuto. A ricordarlo è Guglielmo Epifani, segretario generale Cgil, parlando di «una giornata di lutto indegna, di fronte alla quale occorre impegnarsi per dare piena attuazione alle nuove norme sulla salute e sicurezza nel posto di lavoro, invece di continuare a rimetterle in discussione come sembra volere fare il governo». «Il sistema sanzionatorio da solo non risolverà il problema - aggiunge Epifani - ma costituisce un deterrente». Raffaele Bonanni (Cisl) tace sul punto, e invita «il paese a ribellarsi». Per Luigi Angeletti (Uil) bisogna «riorganizzare l'economia e luoghi produttivi più piccoli articolandoli nel territorio e creare una modalità orizzontale che favorisca l'incontro tra il sindacato e le persone». Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Cgil, parla di «una nuova ThyssenKrupp che richiede una risposta senza precedenti da parte di tutto il mondo sindacale». Di «una tragedia orribile» parlano tutti, dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi in giù, ai presidenti di Camera e Senato, fino al leader del governo ombra, Walter Veltroni. Antonio Boccuzzi, sopravvissuto alla strage ThyssenKrupp, oggi parlamentare Pd, è pressochè isolato (in parlamento) nel chiedere l'applicazione del Testo su salute e sicurezza varato dal precedente governo. «Ancora una volta tutti spendono parole di esecrazione e di condanna - denuncia ancora Mercandelli - Ma il sindacato, gli imprenditori e il governo dove sono?».

 

60 ore. E anche di più

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 11/06/2008

In arrivo la nuova normativa sull'orario di lavoro settimanale

L'ennesimo colpo di piccone ai diritti sociali in Europa. I ministri del lavoro dei 27 Stati europei hanno raggiunto un accordo, ieri, sulla direttiva europea sull'orario di lavoro. Licenziando un testo (che ora sarà sottoposto al parlamento europeo) che decreta la fine delle 48 ore settimanali - conquistate dall'Organizzazione internazionale dei lavoratori nel 1917 - e spalanca la porta a settimane lavorative di 60, persino 65 ore.
Ha vinto, di fatto, la linea a lungo perseguita dalla Gran Bretagna, la cui legislazione dal 1993 prevede la possibilità di avvalersi del diritto di opting out, attraverso cui singoli lavoratori e imprese possono sottoscrivere 'liberi' accordi (con quali rapporti di forza è facilmente immaginabile) per modificare l'orario di lavoro. Con la decisione di ieri, l'opting out diventa norma generale per tutti gli stati membri. I negoziati per aumentare l'orario di lavoro settimanale erano in corso da qualche anno. Al blocco capitanato dal Regno Unito (e sostenuto anche dalla Germania e della maggior parte dei nuovi stati membri) si è sempre opposto quello costituito da Francia, Spagna e Italia (in compagnia di Grecia, Cipro, Belgio e Lussemburgo). Con l'avvento di Berlusconi, l'Italia ha di fatto abbandonato il fronte della difesa dei diritti sociali, mentre Sarkozy in Francia ha fatto dell'orario di lavoro una merce di scambio il collega britannico Gordon Brown: la Francia avrebbe approvato l'allungamento dell'orario di lavoro, qualora la Gran Bretagna avesse accettato la parificazione dei diritti per i lavoratori interinali. E così ieri è andata. I ministri dei 27 Stati hanno approvato infatti una seconda direttiva, che decreta parità di trattamento (su salario, congedo e maternità) tra lavoratori 'in affitto' e dipendenti. Fatta salva comunque la possibilità di deroghe, qualora vi sia un accordo in tal senso con le parti sociali (come già accade in Gran Bretagna).
Le due direttive sono state approvate a maggioranza qualificata, con la contrarietà di cinque paesi (Spagna, Belgio, Grecia, Ungheria e Cipro). Ora dovranno passare al vaglio del parlamento europeo, traghettato dalla presidenza slovena a quella francese. La commissione europea applaude, mentre la Confederazione dei sindacati europei (Ces) parla di un «accordo inaccettabile, su cui daremo battaglia al Parlamento europeo», pur apprezzando la direttiva sugli interinali. E non si è fatto attendere il commento del nostro ministro, Maurizio Sacconi, che anche ieri è tornato a parlare della necessità di una «chirurgica deregulation del mercato del lavoro»: «Ora è importante che il parlamento europeo possa ratificare rapidamente questo accordo e che esso trovi poi rapida attuazione nella legislazione dei singoli paesi membri».
Con la nuova direttiva, gli Stati membri potranno modificare la propria legislazione per consentire ai singoli lavoratori di sottoscrivere accordi individuali in materia di orario di lavoro con i propri datori di lavoro. Un colpo di piccone alla contrattazione dunque, e un'incentivo netto ai rapporti di lavoro individualizzati. L'orario di lavoro potrà arrivare fino a 60 ore settimanali, 65 per alcuni lavoratori, come i medici. E il numero di ore viene considerato come media, che significa che la settimana lavorativa potrà arrivare a 78 ore.
Ma non è tutto. Perchè la direttiva riscrive anche il cosiddetto «servizio di guardia», il periodo cioè durante il quale il lavoratore è obbligato a tenersi a disposizione, sul proprio luogo di lavoro, in attesa di essere chiamato. Fino ad ora questo periodo (che può essere di svariate ore) era considerato tempo di lavoro, dunque retribuito. I ministri europei hanno deciso invece che, per esempio, stare al Pronto soccorso di guardia senza essere chiamati non sarà più lavoro retribuito. Massimo Cozza, segretario nazionale Cgil medici, lancia l'allarme. Ma su questo Sacconi ha rassicurato: «In Italia la parte inattiva del turno di guardia resterà orario di lavoro».

 

Ue, sfruttamento dei lavoratori oltre le quarantotto ore. Ma così la vita è sotto sequestro

Flessibilità dell'orario, contrattazione individuale, fine di una stagione dei diritti 

Roberto Musacchio*
«Se 60 ore (ma anche 65 e 75) a settimana vi sembrano poche provate voi a lavorare»: si potrebbe modificare così la celebre canzone sulle otto ore giornaliere dopo le decisioni del Consiglio occupazione Ue.
L'accordo è pessimo e pesantissimo. La presidenza slovena ha cercato di mascherarne i contenuti con una dichiarazione reticente, ma i testi sono chiari e durissimi. La vicenda della regolamentazione dell'orario, dopo due anni di fermo per i contrasti intervenuti con il Parlamento e fra gli Stati, si sblocca nel peggiore dei modi. In sostanza la flessibilizzazione dell'orario è totale. Le 48 ore divengono media annua calcolabile con settimane di 60 ore portabili a 65 si con tempi di attesa e addirittura a 75 se con scelte individuali regolate da accordi collettivi. Se prima si diceva che lo sfondamento dell'orario previsto poteva avvenire solo per accordi collettivi, ora in assenza di essi le scelte individuali sono in pratica sempre possibili.
Se facciamo un po' di storia passata della vicenda, capiamo che nei fatti si arriva al peggio. Tutto il tema orario è compromesso dalla direttiva sull'orario giornaliero, che prevede fino a 13 ore di lavoro continuative (11 di riposo). In Europa ci sono aeree, come quella anglosassone, dove è consolidata la pratica dell'opt out, cioè della possibilità di deroghe individuali agli accordi collettivi. Modello di riferimento anche per molti paesi dell'Est. Contro l'opt out si è pronunciato più volte il Parlamento europeo chiedendone il superamento.
Ci sono poi state sentenze della Corte di Giustizia europea sul tempo inattivo di lavoro (ad esempio la guardia medica) e sul suo criterio di calcolo. Anche su questa base si è arrivati all'idea di una nuova direttiva orario. La base di partenza è stata allora, tre anni fa, una sorta di scambio tra superamento dell'opt out e annualizzazione (contrattata, forse) dell'orario. Noi ci battemmo contro questo scambio per contrastare la flessibilizzazione insita nell'annualizzazione (conteggio annuale). Quando si arrivò al Consiglio europeo ci si accorse che lo scambio in realtà non c'era in quanto si voleva e l'opt out e l'annualizzazione. La direttiva fu bloccata anche dall'azione del Governo Prodi, in questo caso positiva.
Ora si è voluti ripartire, al peggio. Forti anche delle recenti sentenze della Corte di Giustizia (come il caso Laval) sul non valore generale dei contratti collettivi, la somma tra opt out e annualizzazione si realizza nei fatti con una fortissima tendenza all'individualizzazione dell'orario. Non più il contratto che regola le deroghe, ma il contratto come, parziale, contenimento di una deregolamentazione che è norma. Continua così lo smantellamento nei fatti del diritto collettivo del lavoro permesso dal Trattato e reso esigibile dalle sentenze della Corte di Giustizia. Si può pure continuare ad affermare il valore dei sindacati e delle tutele collettive, ma nei fatti il lavoro è reso sempre più variabile dipendente e individualizzata della logica d'impresa. Il tutto mentre il dumping continua ad imperversare nell'Europa allargata e quando il sindacato pone la questione salari la Banca europea risponde "niet" indicando come priorità la lotta all'inflazione. Facile capire come con questo attacco alle funzioni stesse del lavoro le sinistre siano in così grande difficoltà in questa Europa. E facile capire cosa avverrà in Italia con il Governo che ha appoggiato pienamente la nuova direttiva, forte anche del rapporto fra straordinari, defiscalizzazione e salario realizzatosi in questa fase anche con il precedente Governo e il sostegno dei sindacati. Non sarebbe l'ora di reagire?
* Europarlamentare Prc

Liberazione 12/06/2008

 

Nato: pronti al raid su Kandahar. L'Italia offre i suoi Tornado

Migliaia di civili in fuga nell'Afghanistan meridionale dove le truppe Nato preparano l'assalto. Il minstro degli Esteri italiano Frattini conferma la volontà di impiego delle forze aeree italiane



di Anubi D'Avossa Lussurgiu

Così come non ha titolo che per poche ore la notizia della strage di migranti nel mare nostrum - figurarsi la notizia che gli annegati sono stati 10mila in un anno - così le notizie di guerra guerreggiata non hanno titolo nemmeno per un minuto. Anche se a combatterla ci stiamo andando noi: addirittura coi bombardieri. E' questo il caso dell'Afghanistan, alfa e omega della guerra globale duratura che George W. Bush lascia in eredità. Negli ultimi giorni la continua pressione dei contingenti Usa e dei più stretti alleati, come i britannici, ha nelle regioni meridionali trovato una replica virulenta. I Taleban hanno inflitto uno dei più pesanti colpi con l'eclatante "svuotamento" del carcere di Kandahar, liberando centinaia dei loro. E nelle ultime ore hanno continuato ad avanzare in tutta la regione, conquistando decine di villaggi nel distretto di Arghandab. Là, un nuovo esodo di migliaia di civili è cominciato. Il mullah talebano Daoud ha fatto sapere che la manovra mira a «prendere una città importante come Kandahar». E la Nato, cui è in carico la missione Isaf che formalmente gestisce anche le truppe di "Enduring Freedom" su quel sanguinoso fronte ma in realtà ne è gestita, annuncia raid aerei intorno e su Kandahar. C'è solo una novità: che stavolta potrebbe essere il turno dei nostri Tornado. Come aveva fatto capire il ministro Frattini una settimana fa, in audizione parlamentare ufficiale. Nel silenzio generale.

Vediamo cosa succede, o almeno cosa trapela di quel che succede, intorno a Kandahar. Gli stati maggiori militari afghani, quelli del governo "legittimo" di Amid Karzai, hanno fatto sapere ieri d'aver aerotrasportato 300 uomini sulla città capoluogo del Sudest, dopo altri in numero imprecisato già inviati lunedì. Significa, questa notizia d'un vero e proprio ponte aereo militare su Kandahar, due cose: la prima è che i contingenti Usa ma soprattutto britannici, australiani e olandesi dispegati in quelle zone non ce la fanno più a sostenere l'urto della controffensiva dei Taliban; la seconda è che la minaccia contenuta da Daoud, «prendere un'importante città come Kandahar», ha uno spessore concreto agli occhi degli avversari, al punto da rinfoltire in tutta fretta il presidio della città.

Ma l'assedio alla città-chiave del meridione afghano e dunque della faglia strategica afghano-pakistana e infine del principale canale economico, quello del traffico d'armi e oppio, è già cominciato. La Bbc in lingua pashtun e gli stessi ufficiali afghani rendono noto che i Taliban hanno fatto saltare già dei ponti, per la precisione tre, minandone diversi altri. E il ponte aereo mostra che la manovra sul distretto di Arghandab è riuscita almeno nello spezzare i collegamenti terrestri delle truppe del fronte Sud, che sono il grosso di tutte quelle della coalizione occidentale in Afghanistan. A questo si aggiunge il fronte della guerra psicologica: non solo con il "colpo" dell'assalto al carcere e dell'evasione di quasi mezzo migliaio di militanti Taliban, ma la notizia incontrollata che proprio loro starebbero già combattendo in questa stessa offensiva su Arghandab. Così come l'evento ben concreto dell'attacco su Laskhar-gah, altro snodo decisivo e in asse proprio con Kandahar, effettuato sabato mettendo a segno l'uccisione del generale governativo Toorjun, a capo del distretto di Nadè Ali.

Si tratta di nient'altro che della scena definitiva del fallimento dei piani Nato in Afghanistan. La «fine del lavoro» in Afghanistan si giocava, nella propaganda di Washington seguita docilmente dall'Alleanza Atlantica, quasi tutta nell'offensiva nel Sud, che doveva durare la primavera del 2007 e che s'è impantanata per oltre un anno, fino a capovolgersi come si vede adesso. Le operazioni misteriose sulle montagne di confine con il Pakistan, nell'Est afghano, sono state definitivamente derubricate a rango secondario, in questa messa in scena, dopo lo spostamento del mitico "covo" di Osama Bin Laden (o del suo fantasma) nientemeno che sul Tetto del Mondo, fra le pendici del K2, nel nordico Pamir pakistano. E ora a Kandahar rischia di crollare l'ultimo proscenio.

E' questo che spiega
le mosse degli "alleati" nelle ultime ore. Come l'aver mandato elicotteri sui villaggi prossimi all'avanzata talebana, con altoparlanti da cui gli abitanti sono stati invitati alla fuga. Con la promessa di «rifugio» proprio a Kandahar. Gli elicotteri erano quelli britannici e tutto ciò ricorda tetramente ciò che fece Gordon Pascià a Karthoum, prima che il Mahdi sudanese sterminasse la popolazione di residenti e di profughi che vi era rimasta sotto la "protezione" dell'inglese, la cui testa finì ad essiccare sulle mura. Oggi però quel che fu l'Impero di Sua Maestà la Regina e soprattutto il suo grande quanto improvvido erede, cacciatosi proprio nel pasticcio afghano del Grande Gioco kiplinghiano, dispongono di altri mezzi che l'invio di truppe di soccorso d'oltremare e le annesse lungaggini degli stati maggiori. Hanno invece a disposizione la minaccia della distruzione totale, rapida e senza troppi prezzi umani, per sé. Ossia il bombardamento a tappeto, dall'aria. E' appunto quanto quegli altoparlanti degli elicotteri britannici hanno annunciato ai terrorizzati pastori e braccianti di Arghandab. E non c'è alcun azzardo nel prevedere sin d'ora che, vista la difficoltà dell'esodo di massa dei 150mila abitanti dopo la presa dei ponti da parte dei Taliban, i tristi bilanci degli "effetti collaterali" dei raid occidentali collezionati sin d'ora potrebbero impallidire di fronte alle vittime civili di quelli adesso promessi.


Non servirà nemmeno
questo ed un leader tribale come Haji Ikramatullah Khan ricorda che gli stessi sovietici non riuscirono mai ad occupare stabilmente quel distretto, pur bombardandolo. Ma è proprio in quest'inutile strage che potrebbe trovare nuovo "ruolo" l'Italia: come ha detto Frattini ancora ieri, pronta «se ci sarà una richiesta della Nato» ad «un impiego delle forze aeree per la copertura dello spazio territoriale attualmente coperto dalle forze aeree tedesche». Che le coprono con i bombardieri Tornado, come Tornado sono i velivoli annunciati per questo "avvicendamento" dal ministro degli Esteri già la settimana scorsa. E la verità è che i Tornado tedeschi, da mesi, sono stati impiegati anche sul Sud. Su Kandahar. Perché non gli italiani? Si può giurare che quella «richiesta» Nato arriverà.


(Liberazione, 18 Giugno 2008
)

 

 L'opposizione c'è, in piazza.Assenti sono"i politici". Ma lì comincia un'altra politica

Riflessioni sull'(in)utilità
Anubi D'Avossa Lussurgiu
Sì, è vero: non c'è due senza tre. Mai come in questo caso, però, la terza volta stabilisce una norma, certo temporale ma che definisce un senso della realtà. A Chiaiano, Napoli, la prima volta. Al grande Pride romano, la seconda. Ieri di nuovo nella capitale, la terza: con la ben più che riuscita manifestazione dell'«altra Roma» dei movimenti e con un peso specifico dei numeri se possibile maggiore, perché si tratta di movimenti molto caratterizzati quanto a "radicalità". Ecco il senso: un'opposizione reale, nella società, in questo Paese c'è. Non un'opposizione potenziale, "da suscitare" quando - e se - risulterà almeno "elaborato" il trauma politico di aprile. No: è un'opposizione che si manifesta attivamente, da sola e da subito. Diversificata, cioè fatta di percorsi diversi e su diversi piani. Con elementi ricorrenti, però.
Primo: tutti questi "eventi" d'opposizione sono già un passo oltre quel "trauma" del nuovo quadro politico. In tutta evidenza, ne sono mossi: Chiaiano dall'annuncio di militarizzazione dello scontro, il Pride dalla piattaforma delle destre di governo di aperta negazione dei nuovi diritti e di attacco agli strumenti di diritto disponibili all'autodeterminazione, la piazza romana di ieri dall'arrivo del "pacchetto sicurezza" e dall'incalzare del neo-sindaco Alemanno. Ma questi "eventi" al "trauma" rispondono con una prima, comune, affermazione: non abbiamo paura. Non dobbiamo averla, pena la ratifica della sconfitta nella materialità delle nostre vive vite, ancora una volta. E deteniamo la forza e le ragioni per potere non averla.
Secondo: anche quanto a "piattaforme", queste manifestazioni e soggettività d'opposizione esibiscono delle costanti. Si percepiscono, anzitutto, come protagoniste di battaglie di libertà; e con ciò indicano quel che è a rischio nella risposta restauratrice alla crisi attuale della democrazia e della coesione sociale. Inoltre non si tengono "fuori" ma anzi rilanciano la sfida della "decisione politica": opponendo alla legalità dell'autoritarismo la legittimità del conflitto e un'ambizione d'autogoverno. Infine, tengono tutte a sottolineare il proprio carattere opposto alla parodia d'opposizione che vive nelle istituzioni e che incarna invece il governo allargato della restaurazione. Piuttosto, rappresentano (insieme a ciò che deve ancora manifestarsi come, essenziale, il nuovo ciclo di lotte del salariato che verrà) il solo fattore che può metterla in crisi.
Terzo, che prima o poi bisognava pur dire: tutti questi episodi vedono l'assenza della sinistra "politica", quella esclusa dal Parlamento, quella dei partiti. Prc compreso. Non se ne avranno a male le compagne e i compagni dirigenti e militanti che c'erano, di qualsiasi posizione "interna": sono tutte e tutti intelligenti e sanno che c'erano loro ma non c'era "corpo" collettivo sufficiente e necessario. Allora, capiamolo: la «necessità» del soggetto politico organizzato in partito, che sia quello presente o da costruire, che proponga costituenti o federazioni, è tutta da dimostrare. Ad ora è indimostrata e inerte, quanto all'opposizione che pure c'è. E se politica, soggettività, "elementi di programma" stessero altrove? In queste agorà di salariati e non, di donne e d'uomini, d'indigeni e di migranti? Meditare...

 

L'esercito nelle città e l'inizio del controllo sociale

di Marco Sferini

su redazione del 16/06/2008

www.lanternerosse.it

C’è un limite invalicabile per uno Stato che si vuole definire “democratico”: è il limite che separa la gestione dal controllo. Il governo Berlusconi ha volutamente smarrito questo crinale, questo spartiacque delle regole che dovrebbero uniformare la vita di noi tutti ai princìpi costituzionali. La decisione di schierare l’esercito nelle città per contrastare la criminalità e, quindi, fare fronte a quella “emergenza – sicurezza” che viene propinata quotidianamente da giornali e televisioni come l’unica vera preoccupazione degli italiani, è una decisione che apre la strada ad ulteriori inasprimenti sul versante, per l’appunto, del controllo dei cittadini e non della loro gestione.
Prescindendo dal mio personale brivido libertario, per cui anche il termine “gestione”, associato alla vita di ciascuno di noi, mi risulta intollerabile, credo sia opportuno vedere le differenze che vi sono tra uno Stato che cerca di mettersi al servizio dei cittadini e uno che, invece, propende per una differente amministrazione del sociale e, quindi, anche in merito all’ “ordine pubblico”. 2.500 uomini, dice il ministro La Russa, e per “soli sei mesi”.
Saranno pochi gli uomini e anche i mesi, sarà pure una procedura di sperimentazione, ma resta il fatto che il governo Berlusconi ha deciso di affrontare con una politica di polizia militare quegli allarmismi ad arte creati che sono il merito di discussione dei salotti di Bruno Vespa e di Enrico Mentana.
Ancora qualche giorno fa si celebrava nuovamente a “Matrix” il signore del Pigneto che ha sfasciato le vetrine di un locale, che – conoscendo ormai bene la vicenda in tutti i suoi aspetti – poteva essere risparmiato. Quel gesto, idolatrato come esempio di “giustizia fai da te”, non rimane isolato se la risposta di un governo è quella di inviare l’esercito a pattugliare le strade e le piazze delle città per scongiurare furti, scippi, stupri e quanto di altro.
Eppure le statistiche dicono che dal 1995 ad oggi gli omicidi sono diminuti e che, se un tempo erano circa 2.000 all’anno, oggi sono considerevolmente scesi a 600 – 700 sempre nel corso dei 365 giorni. Come si può ben vedere in questi giorni, il “pericolo rom” è una vera e propria campagna di mistificazione criminale che vuole etichettare un gruppo di persone, un popolo, come coloro che alimentano la delinquenza di piccolo cabotaggio, soprattutto il borseggio e l’accattonaggio e che, nel vivere in baracche fatiscenti, non possono – seguendo una perversa logica razzista e nutrita dal pressapochismo del pregiudizio – non essere atti a commettere dei reati. Come potrebbe essere altrimenti?
Tacciare i rom di una predisposizione genetica alla reicità è giusto se si vuole con ostinazione dimostrare che gli italiani, invece, sono bravi, bravi e ancora bravi. Eppure non è così. Pochi giorni fa un italiano, un trentenne, ha stuprato una ragazzina africana, ma i giornali e le tv che si ispirano al pensiero politico e alla condotta morale della attuale presidenza del Consiglio dei Ministri non hanno fatto titoli da prima pagina, a nove colonne con foto raccapriccianti. Hanno speso poche parole in qualche “breve”, nelle pagine interne.
E’ questo il razzismo vero, quello ideologico, quello che poi seduce il campo della disperazione dei moderni proletari che campano con lavori saltuari, che imprecano contro gli stranieri e che votano la Lega Nord perché alla disperazione loro offre ricette dirompenti, che non lasciano nulla all’analisi dei fenomeni sociali, ma che si dirigono come dei tir impazziti a tutta birra contro il presunto colpevole: e meglio ancora se è clandestino, anche solamente immigrato.
L’esercito nelle città italiane non servirà veramenta a niente. Non si controlla il territorio con la sua militarizzazione. Un territorio dove ci sono i militari è un territorio, di solito, dove c’è una guerra o dove c’è appena stato un colpo di stato e, pertanto, è “normale” assistere a scene di camionette con i fucili puntati addosso alla gente che passa per strada e che è tenuta sotto la mira costante di chi ha paura della ribellione, della sommossa, del disordine.
Non importa che siano 2.500 o 10.000, non importa che sia solo per sei mesi o che sia invece per un anno. Importa che la politica del governo è improntata sull’utilizzo della forza contro la forza e non fa un benchè minimo sforzo di interlocuzione con quelle problematiche sociali che invece vanno esplorate, disarticolate e analizzate nel loro più microscopico “particulare”.
Il Cavaliere nero di Arcore può anche ritenere opportuno utilizzare l’esercito per difendere gli italiani. Ma la domanda che ci viene immediata, dopo questa considerazione, è: difenderli da chi, da cosa? Se è per difenderli dai comuni reati che vengono commessi, ebbene bastano le leggi che già esistono e che – a ben vedere – non sono neanche tenere se si passano in rassegna le normative sui migranti (la vergogna della “Bossi-Fini” è ancora lì che aspetta… e non spera… di essere abrogata). Ma questo ennesimo atto di forza della politica verso la società completa le ordinanze dei sindaci democratici che si comportano come i peggiori sceriffi della California del dopoguerra civile americano. Cofferati, Domenici, Chiamparino, per citarne alcuni, hanno sdoganato anche nel campo “non di destra” (perché definirlo di sinistra sarebbe veramente falsare il significato abusato e latamente esteso della parola) il giustizialismo e la moda negativa del controllo e della repressione dal sapore preventivo.
Se anche all’esercito vengono consegnati incarichi di polizia e si permette alle forze armate di avere il potere dell’arresto e del fermo, ecco che la temporalità corta e il numero di militari impiegati viene veramente ad essere secondario come aspetto di una misura che si pretenderebbe non essere, per questo, coercitiva della libertà personale.
In sessantadue anni di vita della Repubblica, è la prima volta che l’esercito viene impiegato con poteri di polizia. Licio Gelli ne sarà probabilmente molto contento, visto che questo clima sociale e politico assomiglia sempre più al suo “Piano di rinascita democratica”, dove si contemplava nei mezzi di informazione il centro di un potere quasi assoluto sulla società.
Dunque, questo sparpagliare l’esercito nelle città dello Stivale è un atto che consideriamo grave, che oltrepassa i confini della tutela della libertà dei cittadini, che la limita e che entra in contrasto con i dettami costituzionali. Un intervento del Capo dello Stato sarebbe opportuno, considerando che Napolitano è egli stesso il capo delle Forze Armate e che, quindi può disporre in merito del loro utilizzo.
Sarebbe opportuno, abbiamo scritto. Perché ne nascerebbe certamente un conflitto fra poteri dello Stato e non c’è bisogno di un braccio di ferro tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Del resto, se la situazione andasse peggiorando e le tentazioni securitarie si dirigessero verso una escalation inarrestabile, qualcuno dovrà intervenire e richiamare il governo al rispetto della Costituzione che dà alle Forze Armate solo il compito di difendere la Nazione da nemici esterni che la attacchino.
E non sembrano davvero sufficienti le motivazioni di un attacco “interno”, messo in piedi dalla tanto sbandierata “emergenza sicurezza”, per giustificare e ammettere l’occupazione militare di Roma, Firenze, Torino, Napoli, Milano e Palermo.
La Repubblica Italiana non è tutto questo, ma è quella che è scritta nella Costituzione, così tanto accarezzata proprio da chi, in queste ore, la sta ulteriormente calpestando.

 

 

L'Europa decide:«Saremo feroci e razzisti...»

Approvata dal Parlamento europeo la direttiva anti-immigrati. Fino ad un anno e mezzo nelle prigioni amministrative. Bambini inclusi. Rimpatri coatti anche nei Paesi terzi come la Libia e il Marocco, senza garanzie per i diritti umani.
Il partito socialista si spacca, la Chiesa insorge

Non sono bastate le foto scattate nel girone infernale dei centri di permanenza temporanea, distribuite dagli europarlamentari della sinistra rossoverde ai colleghi prima della plenaria. Foto come quelle delle galere per stranieri di Malta, 18 mesi di detenzione senza poter contattare un medico o un avvocato, quasi nulla la distinzione tra migranti e richiedenti asilo, una saponetta al mese e il rancio da consumare con le mani in bacinelle per il bucato.
Non sono nemmeno bastati gli appelli di una cinquantina di capi di Stato tra cui il presidente boliviano Evo Morales, e neppure gli appelli di Amnesty International, di vari organismi dell'Onu come l'Alto commissariato per i rifugiati e la petizione firmata da intellettuali e artisti europei, insieme con quella di centinaia di ong e la lettera accorata delle madri di Plaza de Mayo.
Il Parlamento di Strasburgo ha tirato dritto approvando in prima lettura la direttiva rimpatri che inasprisce la condizione degli stranieri extra-Ue senza documenti, attualmente 8 milioni, sancendo il prolungamento della detenzione nei Cie (ex Cpt) fino a 18 mesi per i migranti trovati irregolari che non siano tornati volontariamente in patria entro 30 giorni, la possibilità di espellere i minori stranieri non accompagnati e non identificabili, l'opzione di rimpatriare i sans papier nei Paesi di transito, il divieto di reingresso per 5 anni, la restrizione dei casi nei quali l'espulso può chiedere ricorso con patrocinio gratuito.
Un giro di vite senza precedenti nella politica europea sull'immigrazione.
Ora gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepire la normativa, ad eccezione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca che si sono tenute ai margini grazie alla clausola dell' opt-out , e d'altronde nei tre Stati la permanenza nei Cie è illimitata.
Tuttavia, proprio su quella che le sinistre europee hanno ribattezzato "la direttiva della vergogna", l'Europa si spacca. Se la direttiva ha ottenuto il voto convinto dei Popolari e della destra Uen, di cui fanno parte An e Lega, è altrettanto vero che alcuni Liberaldemocratici come i radicali Cappato e Pannella hanno votato contro. I socialisti del Pse si sono ritrovati a macchia di leopardo: gli eurodeputati del Pd si sono astenuti ad eccezione del "no" di Guido Sacconi, così come la Sinistra Democratica di Claudio Fava; "sì" convinto, invece, dai socialisti tedeschi e spagnoli.
L'astensione del Pd non dovrebbe stupire: in fondo la trattativa per la direttiva, cominciata nel 2005, era stata condotta per l'Italia da Giuliano Amato, ministro di Prodi. Ora gli europarlamentari di Veltroni spiegano di aver assunto una posizione più morbida rispetto al voto contrario in quanto i governi europei hanno promesso di non adottare norme più severe rispetto a quelle in vigore e di assumere gli aspetti migliorativi della direttiva, specialmente riguardo al diritto dei minori.
La Sinistra Europea, all'interno della quale si trovano Rifondazione e Pdci, sperava di far passare degli emendamenti per scongiurare l'approvazione in prima lettura. E naturalmente ha votato contro. Invano.
«Una delle pagine più buie della storia europea» commenta amaramente l'europarlamentare Giusto Catania (Prc). «Da oggi», prosegue, «l'Europa non è più la patria dei diritti umani». Vittorio Agnoletto parla di «un'Europa senz'anima dove trionfano razzismo e segregazione».
La direttiva scavalca numerosi strumenti giuridici a protezione dei migranti, a partire dai minorenni ora espellibili dopo un periodo di detenzione nei Cie nel caso non sia possibile dare loro un nome, un cognome e una nazionalità. Un problema specialmente spagnolo - ed ecco uno dei probabili motivi per cui gli europarlamentari di Zapatero hanno votato la direttiva: migliaia di ragazzini maghrebini arrivano in Spagna illegalmente nascondendosi nei cargo o aggrappandosi sotto i camion.
In Italia ad oggi è vietato rinchiudere i minorenni nei centri di identificazione, e difatti il responsabile Arci per l'immigrazione Filippo Miraglia sottolinea che la nuova norma «viola trattati e convenzioni internazionali come la convenzione per i diritti del fanciullo», particolare denunciato anche da Save the Children . Proprio Amnesty, che ieri si è detta «molto amareggiata» per il voto di Strasburgo, aveva pubblicato un allarmante rapporto sulle illegalità invisibili nella detenzione di ragazzini all'interno dei Cpt italiani.
La direttiva sancisce la trasformazione della violazione amministrativa, il trovarsi senza documenti di soggiorno, in un reato punito con la detenzione nei centri, l'espulsione e il divieto di ritorno per i seguenti cinque anni. Il divieto potrà nuocere gravemente ai richiedenti asilo, in quanto un migrante rimpatriato coattivamente e successivamente bisognoso di asilo non potrà avvicinarsi alle frontiere dell'Europa per lungo tempo.
Il commissario alla Giustizia, Libertà e Diritti civili Jacques Barrot addolcisce la pillola e assicura che veglierà sul rispetto dei diritti umani dei migranti, specialmente dei bambini: la direttiva, per Barrot, è «una prima tappa sulla strada che deve condurre l'Unione europea a dotarsi di mezzi effettivi per la gestione concertata, solidale e umana dell'immigrazione irregolare». C'era bisogno, insiste il commissario nella poltrona che fu di Franco Frattini, di una armonizzazione delle politiche dei singoli Stati. Proprio due giorni fa Barrot aveva presentato un pacchetto della Commissione Ue sull'immigrazione regolare e sull'asilo, specificando che l'Ue avrà bisogno di 20 milioni di migranti entro il 2030. A sorpresa, il presidente della commissione europea José Manuel Barroso, in una intervista al Corriere della Sera invita gli stati membri a non punire i clandestini ma chi li sfrutta. Buonismo europeo? Sarà, eppure finora le uniche due direttive sull'immigrazione hanno riguardato protezione delle frontiere e rimpatri coatti, nulla su integrazione e accoglienza. E la velocità con la quale la direttiva di ieri è stata approvata, assicurano gli europarlamentari di Rifondazione, è stata determinata dalla gara ad accaparrarsi i fondi per il rimpatrio non ancora utilizzati, 700 milioni di euro, che diventano 2,5 miliardi se associati ai fondi per la protezione delle frontiere: un malloppo probabilmente destinato in larga misura ai Paesi mediterranei come Grecia, Italia e Spagna.
La delusione è anche del Vaticano, che con l'arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti, si è schierato «con l'opinione espressa dalla minoranza a Bruxelles» e cioè con Sinistra unita, Verdi e Sd, contrari alla detenzione di stranieri sans papier : «Se l'Europa perde il suo ruolo di portabandiera dei diritti umani autentici» conclude mons. Marchetto, «che le resterà nel consesso delle grandi potenze?».
Grande preoccupazione desta inoltre il via libera al rimpatrio verso i Paesi di transito. Per la Spagna significa che il Marocco diventerà il principale raccoglitore di stranieri indesiderati, per l'Italia sarà la Libia a svolgere questo ruolo nonostante non possa garantire i diritti umani né abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Proprio domani rifugiati e immigrati eritrei si concentreranno davanti all'ambasciata egiziana per protestare contro la deportazione verso l'Eritrea di un gruppo di richiedenti asilo che era giunto in Egitto, con pericolo ora di torture e persecuzioni fino alla pena di morte.

 

Mi vergogno di essere italiano e cristiano

 

di Alex Zanotelli

E' agghiacciante quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi in questo nostro paese.
I campi Rom di Ponticelli (Na) in fiamme, il nuovo pacchetto di sicurezza del ministro Maroni, il montante razzismo e la pervasiva xenofobia, la caccia al diverso, la fobia della sicurezza, la nascita delle ronde notturne offrono una agghiacciante fotografia dell'Italia 2008.
«Mi vergogno di essere italiano e cristiano», fu la mia reazione rientrato in Italia da Korogocho, all'approvazione della legge Bossi-Fini (2002). Questi sei anni hanno visto un notevole peggioramento del razzismo e xenofobia nella società italiana, cavalcata dalla Lega (la vera vincitrice delle elezioni 2008) e incarnata oggi nel governo Berlusconi (posso dire questo perché sono stato altrettanto duro con il governo Prodi e con i sindaci di sinistra da Cofferati a Dominici...). Oggi doppiamente mi vergogno di essere italiano e cristiano.
Mi vergogno di appartenere ad una società sempre più razzista verso l'altro, il diverso, la gente di colore e soprattutto il musulmano che è diventato oggi il nemico per eccellenza.
Mi vergogno di appartenere ad un paese il cui governo ha varato un pacchetto-sicurezza dove essere clandestino è uguale a criminale. Ritengo che non è un crimine migrare, ma che invece criminale è un sistema economico-finanziario mondiale (l'11% della popolazione mondiale consuma l'88% delle risorse) che forza la gente a fuggire dalla propria terra per sopravvivere.
L'Onu prevede che entro il 2050 avremo per i cambiamenti climatici un miliardo di rifugiati climatici. I ricchi inquinano, i poveri pagano. Dove andranno? Stiamo criminalizzando i poveri?
Mi vergogno di appartenere ad un paese che ha assoluto bisogno degli immigrati per funzionare, ma poi li rifiuta, li emargina, li umilia con un linguaggio leghista da far inorridire.
Mi vergogno di appartenere ad un paese che dà la caccia ai Rom come se fossero la feccia della società. Questa è la strada che ci porta dritti all'Olocausto (ricordiamoci che molti dei cremati nei lager nazisti erano Rom!). Noi abbiamo fatto dei Rom il nuovo capro espiatorio.
Mi vergogno di appartenere ad un popolo che non si ricorda che è stato fino a ieri un popolo di migranti («quando gli albanesi eravamo noi»): si tratta di oltre sessanta milioni di italiani che vivono oggi all'estero. I nostri migranti sono stati trattati male un po' ovunque e hanno dovuto lottare per i loro diritti. Perché ora trattiamo allo stesso modo gli immigrati in mezzo a noi?
Cos'è che ci ha fatto perdere la memoria in tempi così brevi? Il benessere?
Come possiamo criminalizzare il clandestino in mezzo a noi? Come possiamo accettare che migliaia di persone muoiano nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per arrivare nel nostro "Paradiso"? E' la nuova tratta degli schiavi che lascia una lunga scia di cadaveri dal cuore dell'Africa all'Europa.
Mi vergogno di appartenere ad un paese che si dice cristiano ma che di cristiano ha ben poco. I cristiani sono i seguaci di quel povero Gesù di Nazareth crocifisso fuori le mura e che si è identificato con gli affamati, carcerati, stranieri. «Quello che avrete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli lo avrete fatto a me».
Come possiamo dirci cristiani mentre dalla nostra bocca escono parole di odio e disprezzo verso gli immigrati e i Rom? Come possiamo gloriarci di fare le adozioni a distanza mentre ci rifiutiamo di fare le "adozioni da vicino"?
Come è possibile avere comunità cristiane che non si ribellano contro queste tendenze razziste e xenofobe? E quand'è che i pastori prenderanno posizione forte contro tutto questo, proprio perché tendenze necrofile?
Come missionario, che da una vita si è impegnato a fianco degli impoveriti della terra, oggi che opero su Napoli, sento che devo schierarmi dalla parte degli emarginati, degli immigrati, dei Rom contro ogni tendenza razzista della società e del nostro governo.
Rimanere in silenzio oggi vuol dire essere responsabili dei disastri di domani.
Vorrei ricordare le parole del pastore Martin Niemoeller della Chiesa confessante sotto Hitler:
«Quando le SS sono venute ad arrestare i sindacalisti, non ho protestato perché non ero un sindacalista. Quando sono venute ad arrestare i Rom non ho protestato perché non ero un Rom.
Quando sono venute ad arrestare gli Ebrei non ho protestato perché non ero un Ebreo… Quando alla fine sono venute ad arrestare me non c'era più nessuno a protestare».
Non possiamo stare zitti, dobbiamo parlare,gridare, urlare. E' in ballo il futuro del nostro paese, ma soprattutto è in ballo il futuro dell'umanità anzi della vita stessa.
Diamoci da fare perché vinca la vita!


Liberazione 24/05/2008

 

Dobbiamo chiederci: sicurezza per chi? Chi minaccia la sicurezza di chi?

 

Mercedes Frias
Un'ondata xenofoba senza precedenti. Il razzismo esploso nelle sue manifestazioni più violente. Flebili reazioni. Provano a reagire i soliti, ancora frastornati dalla frana culturale resa evidente dalle urne. E la potenziale opposizione parlamentare sembra anestetizzata. Incapace di dire, di fare, di muoversi in direzione diversa e contraria di quella della maggioranza. Evidentemente tutto marcia come dovrebbe secondo il loro disegno, secondo le loro prospettive di società. Balbettano ancora che la sinistra ha perso perché non ha capito il Paese, perché ha detto cose sbagliate sulla sicurezza. Colpisce però la miopia, la perseveranza nell'inseguire proclami sicuritari, che individuano nell'escluso il nemico, che fa diventare i dati un'opinione e la percezione pilotata l'unica certezza sulla quale costruire proposte rassicuranti delle fobie collettive costruite in mancanza di risposte ai bisogni della gente, all'impoverimento dilagante.
Duecento prostitute di origine africana uccise nel pressoché totale silenzio negli ultimi tre anni in Italia sono un bell'esempio del razzismo e la violenza contro le donne, nella totale omertà dei media e l'inerzia della polizia.
Donne, ragazzini, uomini che mettono in atto un vero e proprio pogrom contro altre donne, ragazzine, bambini, vecchi, uomini, colpevoli di appartenere all"etnia" maledetta.
Una donna ridotta in schiavitù, ma era "solo una rumena". Rumena anonima, come anonima rimane l'italica aguzzina. Sì perché gli aggressori, anche se presunti, hanno nome, cognome e volto da sbattere in prima pagina, soltanto quando sono "altri";
un'altra anonima rumena violentata dal branco a Roma.
Un barista asiatico aggredito da un branco di giovani neonazisti.
Negozi di cittadini stranieri devastati dal solito branco. E poi, fermi e intimidazione di polizia a Firenze contro due giovani egiziane che passeggiavano in città, coperte con il velo integrale.
Estremisti di destra e cittadini qualunque che si sentono autorizzati a usare qualsiasi mezzo per colpire, punire, il nemico, la minaccia alla loro quiete, al "decoro" delle loro città. Autorizzati da una violenza politica che dà in pasto quotidianamente il capro espiatorio, sia ai razzisti di destra, sia agli esclusi nativi.
La destra xenofoba ha costruito il suo consenso in questi anni con l'esaltazione dell'individualismo, dell'identità costruita per differenza, attraverso una proposta politica etnocentrata, che costruisce e sottolinea i pregi "innati", naturali e superiori degli autoctoni, specie se del nord. A questa visione di sé, si rende indispensabile la costruzione del suo opposto, della minaccia a tanto benessere faticosamente guadagnato: il bersaglio naturalmente viene da oltre frontiera. L'altro, altro da incarnare la radice di tutti i mali, perché non soltanto fa "concorrenza sleale" nelle mansione più squalificate perché costretto ad accettare condizioni più precarie, ma può anche trovare buona collocazione nelle graduatorie per le case popolari e negli asili nido; ma soprattutto, delinque, rende insicure le città, intimorisce le anziane signore. Nulla importa quanto ci dicano i dati sull'andamento della criminalità e sulla reale partecipazione dei migranti come aggressori; loro ci rendono insicuri, loro. Complice il sistema dei media formidabili strumenti di amplificazione dei fatti di cronaca che vedono come autori gli stranieri. Non importa che in campi come le aggressioni sulle donne, gli stranieri siano il 3% degli autori, occupano l'80% dell'informazione.
In materia di politiche sull'immigrazione la destra ha sempre dettato l'agenda, imponendo un'idea, più o meno esplicita, che inchioda, fissa l'immagine dello straniero proveniente dai paesi impoveriti, a quello del delinquente. Il centrosinistra, spesso colpito dalla stessa cultura dell'idolatria campanilista della proprietà e del consumo, ha risposto "difendendo", separando, e via distinguendo fra migranti "buoni", regolari da integrare o meglio assimilare; e quelli cattivi, i cosiddetti clandestini. Così facendo ha dato un notevole contributo a creare l'equazione clandestino-delinquente. Incurante dal fatto che la maggior parte dei migranti oggi regolari, sono stati clandestini o irregolari, sanati con l'unico strumento di regolarizzazione esistente in paese in cui è pressoché impossibile entrare legalmente.
La criminalizzazione dei migranti, specialmente se clandestini, paga dal punto di vista del consenso elettorale. Costruzione politica di nuovi criminali, individuati come causa di ogni male, induzione del senso di insicurezza, di paura; Il risultato è scontato.
Alla luce degli ultimi episodio di aggressione di cui sono stati oggetti i migranti, occorre domandarsi, sicurezza per chi? Chi minaccia la sicurezza di chi?
La spedizione punitiva di un gruppo di giovani romani in un supermercato contro alcuni immigrati, alla vigilia dell'omicidio Reggiani, era l'avvisaglia di quanto può produrre l'uso politico di fatti di cronaca pur orrendi e condannabilissimi. Allora, il leader del Pd ha preteso e ottenuto una riunione del consiglio dei ministri di urgenza con derivante decreto legge, ma, dov'è oggi, dove sono i tanto zelanti custodi della sicurezza con il moltiplicarsi di atti di violenza, non soltanto da ascrivere alla delinquenza privata, ma di chiara matrice razzista e xenofoba?
Tali episodi nella loro gravità sono una conseguenza logica del discorso razzista esasperato maggiormente durante la campagna elettorale e ulteriormente istituzionalizzato con le prime, prioritarie e urgentissime misure del governo: il pacchetto sicurezza.
Oltre le aggressioni fisiche, assistiamo ad un allentamento dei "freni" che circoscrivono certe pulsioni, insulti e aggressioni verbali di ogni tipo nei confronti di persone di aspetto esteriore diverso da quello della maggioranza, è la conseguenza della banalizzazione del razzismo, sia quello individuale, sia quello istituzionale.
Il governo di destra dal canto suo, coerente con il suo disegno, parte velocità all'attacco dei più elementari squarci di dignità degli esclusi. Far diventare reato un illecito amministrativo quale la presenza sul territorio nazionale senza titolo di soggiorno e la reclusione fino a 18 mesi per tale condizione nei luoghi di totale sospensione di ogni diritto sono, atti di vero e proprio razzismo di stato, a danni di chi la propria condizione ha reso fragile e indifeso. E' il governo di destra, agendo fedele a quanto promesso, le timide dichiarazioni
Appare altresì evidente, che la discussione anche in ambito dell'Unione Europea sull'allungamento dei tempi di permanenza nei cpt sia non soltanto espressione di disumanità colpevole, di eccesso di repressione e/o di incapacità di governare gli eventi, ma anche di una di una scelta "economica" data dall'indotto delle carceri?
In questo scenario, urge reagire, uscire dallo stordimento, fare opposizione, decostruire paradigmi; non sono certo le diatribe di potere ai vari livelli o i tentativi di aggregazione per sigle, ora che siamo attoniti e spappolati ad aiutarci a uscire dalla palude culturale, sociale e politica in cui ci troviamo. Siamo minuscole sacche di resistenza, il lavoro è di lunga durata, reagire è un imperativo non più rimandabile.


Liberazione 31/05/2008

 

 

In azione le leggi razziali, Cacciari: democrazia a rischio

 

Piero Sansonetti
Mettiamo in fila alcune notizie di ieri. Prima: a Milano (e non solo lì) è iniziata la schedatura di massa dei rom. Sulla base, pare, di leggi o di disposizioni amministrative. Si tratta, alla lettera, di una iniziativa dello Stato di carattere razziale. Che avviene dopo un intervallo di 63 anni dalle ultime iniziative pubbliche di carattere razziale (realizzate nel nord Italia nel periodo della repubblica di Salò, durante l'occupazione militare tedesca). Seconda notizia. A Roma le autorità hanno deciso di radere al suolo un altro campo rom. Da domani avremo centinaia di nuovi senza tetto. Molti bambini. Terza notizia. Nuove retate nelle grandi città sugli autobus di linea (e anche questo non succedeva più dal 1945). Ieri abbiamo ricevuto un'altra lettera di una lettrice, da Torino. Ne riproduciamo qualche frase: «Alle 08:30 circa, sul bus 67 (capolinea di Moncalieri), pieno di gente che a quell'ora è diretta a scuola o al lavoro, è salita una pattuglia della polizia, ha intimato a tutti gli stranieri di scendere, ha diviso maschi e femmine con bambini, ha chiesto il permesso di soggiorno.Tutto l'episodio si è svolto accompagnato da frasi di questo tipo: "è finita la pacchia", "l'Italia non è più il Paese delle meraviglie"... Gli agenti hanno fatto salire tutti gli uomini su un cellulare, solo un uomo marocchino, mostrando la carta di identità italiana, si è rifiutato di salire. Nessuno dei passeggeri dell'autobus è intervenuto, anzi, molte delle persone presenti, anche sui balconi delle case intorno e sui marciapiedi, hanno applaudito». Quarta notizia. Il governo vuole infilare dentro il decreto sicurezza un codicillo che serva a perseguitare le prostitute, a punirle, a a renderle più deboli nei confronti degli sfruttatori. Quinta notizia. Qualche reazione alla politica razziale del governo (appoggiata dal piddì e dall'Italia dei Valori) c'è. Per esempio la reazione della associazione magistrati, che si è ribellata contro le leggi speciali anti-stranieri; per esempio quella del sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che ha detto che tutto ciò è un delirio e ha parlato di rischi per la democrazia. Per esempio quella del'ex ministro Pisanu che ha definito la norma anti-prostitute «una aberrazione». Magistrati, ex ministro e sindaco si sono limitati ad invocare lo Stato di diritto. Sia ringraziato Iddio.
Quinta notizia. Ancora cadaveri sul mare tra la Libia e l'Italia. Pare che siano 12 i migranti affogati ieri. Le loro morti non creano neanche la metà dell'allarme sociale che può creare - per dire - il borseggio di una turista francese...
Un breve commento. Avrete notato che non abbiamo mai usato la parola «razzisti», solo la parola «razziali», razziali come le leggi di Mussolini del '38-39. Allora nessuno reagì, ognuno pensò a trarne vantaggio, e sapete come andò a finire.

 

Liberazione 07/06/08

Una scHedatura razziale, vergognosa e umiliante


Giorgio Bezzecchi, Sinti italiano. Il Nonno deportato in Germania "è uscito dal camino"

 

«Un intervento di matrice razziale, umiliante. Siamo sinti di cittadinanza italiana, abbiamo i documenti, i nostri bambini vanno a scuola, io personalmente ho lavorato per 23 anni al Comune di Milano».
La voce di Giorgio Bezzecchi, al telefono dopo la schedatura del campo di Rogoredo (Milano) dove vive la sua famiglia, medaglia d'oro al valor civile, è calma e tragica allo stesso tempo. Bezzecchi è stato il primo sinti diplomato del Nord, è ricercatore universitario e musicoterapista, vicepresidente dell'Opera Nomadi Lombardia. Vive in una casa, ma ieri mattina alle cinque e mezza ha voluto stare al fianco del padre, giunto dalla Slovenia nel 1943, deportato a Tussicia dal regime fascista e poi miracolosamente tornato, a differenza del nonno che «fu portato a Birkenau ed è uscito dal camino». Una schedatura su base etnica che rispolvera terribili ricordi. Sessanta anni fa, ha scritto Bezzecchi in una accorata lettera di denuncia, usciva la rivista "La difesa della razza" di Guido Landri, furono approvate le leggi razziali e cominciarono i rastrellamenti. Ecco perché quello che è successo all'alba di ieri è «una vergogna».

Che cosa è successo?
Hanno fotografato le carte di identità. Dicono che sia un censimento, ma l'amministrazione sa perfettamente che esistiamo. Ho lavorato per 23 anni al Comune di Milano come responsabile dell'Ufficio nomadi, mi sono dimesso l'anno scorso in polemica con i patti della legalità e della socialità proposti da don Colmegna e accolti da Letizia Moratti.

Perché?
Si tratta di un intervento differenziale. Non si fanno i patti con le comunità ma con gli individui altrimenti si scade nel razzismo. E' umiliante chiedere ad un rom onesto di firmare un documento nel quale si impegna a non rubare.

Perché è così difficile trovare una soluzione?
Tutti sono d'accordo sulla tolleranza zero ma le istituzioni non propongono alternative a ventaglio e cioè l'inserimento nell'edilizia popolare o in altre strutture a seconda delle esigenze delle singole famiglie rom. Il campo non è una scelta ma una soluzione trovata dalle amministrazioni per concentrare rom e sinti in un luogo controllabile.

Nel pacchetto sicurezza di Maroni si vorrebbe togliere la patria potestà alle donne rom che chiedono l'elemosina con in braccio bambini minori di tre anni.
Dove sta meglio un bambino se non attaccato al seno della madre? Date opportunità a quella donna che chiede l'elemosina e vedrete che quel bambino starà meglio. E poi chiedere l'elemosina non è come rubare e non è reato.

E' d'accordo con chi dice che questo clima di intolleranza sia stato creato da partiti come la Lega?
La Lega governa questa città da molti anni, ma la responsabilità di quanto sta succedendo è delle istituzioni che per anni non hanno affrontato i problemi dei rom e dei sinti perché ciò non crea consenso, anzi.

La gente comune, non necessariamente legata ai partiti, sembra più incline a episodi razzisti come la cacciata dei rom da Ponticelli.
Il momento drammatico è generale. Ci troviamo in una congiuntura economica sfavorevole e vedere volti diversi nelle nostre città impaurisce le fasce deboli. E' come stare in una nave che imbarca acqua, quindi si cerca di buttare in mare la gente per non affondare.

Domenica la prima manifestazione indetta da rom e sinti. Cambieranno le cose?
Lo spero. Ho aderito e parteciperò perché si tratta di una lotta democratica, mi auguro che la politica ci ascolti, noi urleremo il nostro dissenso contro le politiche razziste.

Vi sono stati errori anche da parte della sinistra nella questione rom? O del buonismo?
Evidentemente no. Non ho mai notato grande interesse da parte della sinistra alle nostre tematiche, e sempre perché occuparsi dei rom non porta voti.

In che modo va affrontata l'integrazione nel caso, ad esempio, di alcune tradizioni rom che si scontrano con le leggi italiane come i matrimoni precocissimi?
Le tradizioni vanno rispettate ma è anche vero che la condizione di subalternità della donna era presente anche nell'Italia dei primi '900 e quasi scomparsa con l'acculturazione. Purtroppo si parla sempre degli zingari con visibilità sociale, i delinquenti, le donne che chiedono l'elemosina, i musicisti nella metro. Non ci ricordiamo mai degli invisibili. Ibrahimovic e Pirlo sono rom, ma nessuno lo dice. Purtroppo i campi hanno creato una ghettizzazione urbanistica e sociale che ha escluso la partecipazione dei rom e dei sinti, peraltro dimenticati dalle istituzioni. Partiamo da qui.

Laura Eudati

Liberazione 07/06/2008

 

«Siamo al delirio»,«Se si continua così è a rischio la democrazia»

Vittorio Bonanni
«Siamo al delirio». Non usa mezzi termini Massimo Cacciari quando gli chiediamo che cosa pensa della schedatura nel campo nomadi di Milano-Rogoredo che ha coinvolto la famiglia Bezzecchi, sinti con medaglia d'oro al valore civile. Abbiamo chiamato il primo cittadino della città lagunare per fare il punto della situazione del campo nomadi di Mestre, ma inevitabilmente la prima domanda verte su questa gravissima vicenda.

Sindaco Cacciari, come valuta l'episodio milanese che potrebbe essere esteso a tutti i nomadi italiani, compresi quelli che vivono a Venezia?
Non capisco che cosa dovrebbero schedare. Hanno tutti i documenti italiani perfettamente in regola da decenni e se le forze dell'ordine si presenteranno non faranno altro che chiedere loro questi documenti. Quale schedatura del cavolo vogliono fare! Potranno schedare l'abusivo, l'immigrante clandestino ma non potranno mica schedare tutti i cittadini veneziani, se non altro per ragioni di tempo. Sulla situazione che si sta verificando qui a Venezia sul campo nomadi siamo al perfetto delirio perché stiamo parlando di cittadini veneziani a tutti gli effetti. Al di là di discorsi generali che si possono fare oggi sull'immigrazione è assolutamente normale che in quanto tali chiedano la casa come tutti gli altri e una sistemazione coerente con le loro tradizioni che prevedono una vita comunitaria, in un campo o in un villaggio. E questo succede in tutta Europa.

Qual è ad oggi la situazione del campo di Mestre? I lavori di costruzione si sono fermati dopo le proteste della Lega?
No, non ho fermato il cantiere per questo motivo, ma per rispettare il tavolo che il prefetto molto cortesemente e puntualmente aveva aperto per ascoltare i cittadini che protestavano. E anche perché è stata annunciata questa visita di Maroni durante la quale speravo di poter parlare con il ministro per puntualizzargli l'accaduto e la situazione. E allora giustamente ho soprasseduto a forzare sulla questione dei lavori. Ma dopo la convocazione del prefetto, il definitivo chiarimento delle procedure eseguite e l'incontro con il ministro, noi dobbiamo procedere senz'altro.

L'incontro con Maroni è stato rinviato?
Spero abbia parlato con il prefetto. Si diceva una volta che i sindaci dovessero avere una grande voce in capitolo in materia di sicurezza ma si vede che l'annuncio non è pervenuto al ministro Maroni.

Domani (oggi per chi legge ndr), ci sarà l'iniziativa della Lega contro il campo. Che cosa pensa di questa pericolosa deriva che, senza mezzi termini, possiamo definire razzista...
Siamo certamente di fronte ad una situazione delicata e credo debba essere interesse di tutti riportare alla ragionevolezza la discussione intorno a questi temi. Perché davvero chi semina venta raccoglie tempesta. E non so quanto bene questa tempesta possa fare anche all'attuale governo. Mi pare che questa preoccupazione stia emergendo anche da alcune dichiarazioni del presidente Berlusconi nei riguardi del reato d'immigrazione clandestina. Qui si sta esagerando e si mettono a rischio alcuni principi fondamentali dello Stato democratico, magari inizialmente senza accorgersene, un po' per scherzo, un po' per strumentalizzare, un po' per raccattare qualche voto. Ma si sa, questi processi possono innescare reazioni a valanga. Io chiederei davvero, soprattutto al governo, di non avallare in alcun modo queste infondatissime proteste come quella di Venezia. E poi di fare ogni sforzo per riportare il dibattito e il confronto alla ragione. Se qualcuno intende strumentalizzare la situazione di insicurezza, di paura e di inquietudine che sta dominando nell'opinione pubblica nazionale per tanti motivi, stravolgendola in una sorta di odio dell'altro, di paura dell'altro, si sa dove si comincia ma non si sa dove si finisce. Questo vale per tutti, destra e sinistra. Facciamo molta attenzione perché queste sono cose molto delicate, la situazione italiana è delicatissima, la crisi economica sta coinvolgendo il ceto medio. E quando franasse psicologicamente il ceto medio è tutta la democrazia e l'assetto democratico che sono a rischio, come la storia insegna ampiamente.


07/06/2008

 

 

Alla Sapienza una minoranza contro la barbarie

di Patrizio Gonnella *

su Il Manifesto del 18/06/2008

Siamo tutti sulla stessa barca. Una barca tragica. Una nave impazzita. Questa è la sintesi delle centinaia di voci laiche e religiose che ieri si sono espresse alla Sapienza contro il razzismo. Bisogna ritrovare il coraggio dell'obiezione di coscienza individuale e collettiva. Obiettare rispetto a leggi ingiuste. Obiettare rispetto a pratiche istituzionali violente. Obiettare rispetto a pratiche para-istituzionali ugualmente violente. Obiettare nei confronti di chi rinuncia a obiettare, ossia di chi rinuncia a fare opposizione politica. Obiettare, come fece Antigone nei confronti della legge ingiusta degli uomini che le impediva di sotterrare il fratello morto in battaglia.
Ieri a Roma si è manifestata pubblicamente una minoranza sociale e culturale che rappresenta una larga fetta di associazioni e organizzazioni contrarie all'imbarbarimento dei nostri tempi. Associazioni e organizzazioni che vogliono insieme continuare a elevare le proprie voci, sino a perderle, contro chi pensa che gli immigrati e i rom siano tutti dei criminali. E' notizia di queste ore che il dialogo tra maggioranza e opposizione pare si stia lacerando sulla solita legge ad personam. Vorremmo che quel dialogo si interrompesse su questioni valoriali. La prima delle quali è il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti. Esiste una minoranza pensante, dotata di coscienza umana e politica. Una minoranza fatti di singoli, piccole e grandi realtà che non si rassegna a vedere un Paese che sprofonda verso il razzismo istituzionale e sociale. Si è creato un circolo vizioso drammatico tra la classe politica e l'opinione pubblica. Esso si alimenta rimbalzando dall'una all'altra il gioco della creazione di un nemico posticcio e artificioso. Questo circolo va interrotto. Oggi, chi sta dalla parte dei diritti umani è contro la direttiva Ue sui rimpatri, contro il pacchetto sicurezza, contro il reato di immigrazione clandestina, contro l'aggravante della clandestinità, contro la criminalizzazione di chi affitta un appartamento agli immigrati, contro i commissari ad hoc per i rom, contro le ronde militari e contro le ronde democratiche, contro gli spray orticanti a disposizione dei vigili urbani o l'uso facile delle pistole. Pochi giorni fa ho assistito a una scena da brividi. Un uomo di colore che scappava con le borse a tracollo. Borse che erano colme di oggetti che sperava di vendere ai turisti nel centro di Roma. A inseguirlo un paio di agenti (non so di quale forza di polizia) dal fisico palestrato, dalle facce truci. Erano in borghese. Uno di questi aveva la mano vicino alla pistola. Noi siamo dalla parte di quel giovane uomo di colore. Non c'è ragione commerciale che giustifichi quella scena. Non c'è ragione di sicurezza che spieghi quella corsa. La sicurezza è una cosa seria. Sicurezza significa prevenire i crimini, quelli veri. Tra i crimini veri va compreso il razzismo. Prendersela con i poveri solo perché tali non è da cristiani. Prendersela con gli stranieri solo perché stranieri è da razzisti. Di conseguenza è anche da criminali.

* Presidente di Antigone

Il fronte antirazzista

di Eleonora Martini

su Il Manifesto del 18/06/2008

Assemblea alla Sapienza con decine di associazioni. Assenti studenti e docenti. Confronto aperto tra Arci, Acli, Antigone, Cgil, Federazione dei rom e altre organizzazioni. Per costruire l'opposizione al pensiero unico xenofobo e per i diritti dei migranti

Forse sono ancora troppo poche, ma le «Mille voci contro il razzismo» che si sono alzate ieri dall'Aula magna dell'università di Roma La Sapienza rappresentano gli anticorpi della democrazia italiana. Quell'unica preziosa risorsa a cui aggrapparsi per non venire risucchiati dal pensiero unico, dal senso comune razzista dilagante, dall'ideologia xenofoba che ormai attecchisce come la gramigna, da quel «consenso popolare che si nutre del linciaggio dei diritti» prima ancora che delle persone. Per questo, «un consesso di minoranza» - come l'ha chiamato Gad Lerner, che insieme a Tullia Zevi e Luciano Eusebi ha introdotto la discussione - può avere un potenziale inaspettato per contrastare leggi discriminatorie come quelle previste nel pacchetto sicurezza, imposte in nome di un «popolo» che spesso e volentieri non è altro che «un'invenzione ideologica televisiva». «È il razzismo che ci rende insicuri», è il messaggio lanciato dalle centinaia di persone convenute nel cuore del più antico ateneo romano, e che hanno voluto cominciare con un minuto di silenzio in tributo alle 150 vittime senza volto e nome dell'ultima tragedia del Mediterraneo. Vittime per le quali stanno cercando sottoscrizioni per poter organizzare il recupero delle salme e il loro funerale in patria.
Operatori, studiosi, giuristi, antropologi, rappresentanti delle comunità migranti, ex vittime della tratta di schiave, attivisti, medici, politici, intellettuali e sindacalisti hanno voluto alzare la voce contro quelle norme volute dal governo Berlusconi che introducono il reato di immigrazione clandestina, che prolungano la possibilità di detenere i migranti senza alcun processo fino a 18 mesi in un carcere chiamato Cpt, che autorizzano censimenti su base etnica con schedature di massa, che preparano la società ad una militarizzazione del territorio. Leggi che servono proprio ad «aumentare il senso di insicurezza», a far crescere la paura dell'immigrato, a «cercare un capro espiatorio per distogliere l'attenzione», a «frammentare la società». Perché, hanno fatto notare, «cosa c'è di meglio di una comunità frammentata per poterla depredare?».
Colpisce perciò che alle «mille voci» dell'assemblea romana, promossa da un ampio arco di associazioni della società civile italiana - dall'Arci alle Acli, dalla Cgil a Magistratura democratica, da Antigone a Giuristi democratici, dalla Federazione rom e sinti insieme, che ha partecipato con una folta delegazione, a Libera, Lunaria, Fuoriluogo, Medici contro la tortura, Confronti, Asgi, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Cantieri sociali, ecc. - non si siano aggiunte quelle degli studenti e dei docenti universitari. Nemmeno l'ombra di uno dei tanti attivisti del movimento studentesco romano. Il primo a registrarne l'assenza è stato proprio il prorettore Piero Marietti, ospite e sostenitore del convegno di cui ha avviato i lavori. «Nessun ringraziamento, era nostro dovere essere qui - ha detto Marietti - Vi devo però chiedere scusa perché con dolore riconosco che quello che manca qui questa mattina è proprio l'Università». «Un vero peccato - ha sottolineato più avanti Sveva Haertter, responsabile ufficio migranti della Fiom - che proprio gli studenti, che pure recentemente hanno subito aggressioni da gruppi neofascisti, non riescano a trovare il nesso tra la loro lotta e quella che noi qui sosteniamo». A dire il vero, gli studenti non sono stati gli unici a snobbare l'appuntamento: nessuna traccia nemmeno del Pd malgrado alcuni esponenti, soprattutto tra i radicali, avessero annunciato la loro partecipazione.
Appaluditissima, Tullia Zevi ha ricordato il clima culturale in cui nacquero le leggi razziali e le tante similitudini tra il senso di solitudine e disperazione che provarono gli ebrei e quello che oggi segna la vita di tanti rom e immigrati. In molti hanno ricordato che «i diritti umani prescindono dallo status e dal possesso di un documento», e «non conoscono confini nazionali». Impossibile riportare tutte le voci, ma l'assemblea infine ha deciso, in questa fase, di concentrare gli sforzi su tre punti, come ha riassunto il responsabile immigrazione della Cgil, Piero Soldini: «Primo: chiediamo a governo e parlamento di fermarsi, di non approvare questo pacchetto sicurezza, facciamo appello affinché venga bocciato in Senato, e invitiamo a riprendere un confronto vero con l'associazionismo di base. Secondo: al parlamento europeo di Strasburgo che domani (oggi, ndr) voterà la direttiva sui rimpatri diciamo che se si vogliono cercare in Europa regole omogenee per ben governare i flussi migratori è sbagliato cominciare da norme repressive e penali. Terzo: è necessario e urgente impostare una campagna culturale che si rivolga a tutti, soprattutto ai media. Perché si garantiscano spazi di informazione corretta, plurale e un uso del linguaggio rispettoso della dignità di ogni essere umano».

Maroni a caccia di zingari, musulmani e Leoncavallo

di Luca Fazio

su Il Manifesto del 17/06/2008

A volte, ritornano. «Da oggi ho preso possesso del mio ufficio, quello che già usavo nel 1994, che sarà l'ufficio del ministero a Milano e dove sarò un giorno alla settimana». Lo utilizzava già quattordici anni fa, una vita e non solo in politica. Volete sapere cosa è successo nel frattempo? Che oggi un ministro come Roberto Maroni in nome della «sicurezza» può permettersi di dichiarare guerra a mezza Milano, una delle metropoli più sicure al mondo (basta chiedere al questore), e l'opposizione non trova niente da ridire. Quella finta dentro al parlamento, e quella in avanzato stato di decomposizione fuori dal parlamento - fatta eccezione per qualche voce fuori dal coro che presto sarà messa a tacere nel massacro delle mozioni e dei veti incrociati. Riposa in pace anche la cosiddetta Milano democratica, sempre più rassegnata ad aspettarsi il peggio.
Bobo Maroni lo sa, e per questo ieri se l'è suonata e se l'è cantata quasi da solo: unico timido avversario a far da controcanto, Filippo Penati, il presidente della Provincia di Milano (Pd), praticamente uno dei suoi migliori alleati. Un personaggio che del resto non può opporsi alla principale misura annunciata dal ministro, sempre la solita ma finalmente operativa (esultano Letizia Moratti e Riccardo De Corato): 500 nuovi agenti in più, «intendo dare attuazione immediata al patto sulla sicurezza sottoscritto dall'allora sottosegretario Minniti». Già, l'Unione. E Penati nemmeno può dire no ai militari sparpagliati per la città: se li approva anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano...
Dislocati i soldatini in divisa - non davanti alle cliniche dove si uccidono i pazienti o nei cantieri dove gli immigrati muoiono di lavoro - il nuovo ministro degli Interni ha voluto dare ai milanesi un bel saggio di cattiveria e di cattive intenzioni, realizzabili solo in parte, o magari per niente, ma ugualmente impressionanti.
Gli zingari, prima di tutto. Maroni li vuole schedare con le impronte digitali (già li rastrellano tutti i giorni), vuole cacciare gli irregolari e intende permettere ai regolari di soggiornare nei campi solo per tre mesi (non ha ancora capito che la metà sono italiani e quasi tutti sono stanziali); non contento, vuole introdurre anche il reato di accattonaggio e togliere così la patria potestà ai genitori che utilizzano i figli per l'elemosina. Una specie di rapimento di bambini di massa e legalizzato che non scandalizza nessuno, anzi riceve il benestare del solito Penati (a proposito di opposizione riformista e costruttiva). «La Provincia - ha detto - è pronta a mettere a disposizione le proprie strutture per accogliere quei giovani». Nemmeno a questo punto, Rifondazione, che continua a sostenere la giunta di Palazzo Isimbardi, riesce a prendere atto della gravità della situazione?
Gli zingari, si sa, non interessano nessuno. Allora tocca anche agli arabi, anzi ai pericolosi musulmani. Maroni intende sbarazzarsi della moschea di viale Jenner (negli anni un solo vero grave evento criminoso, il sequestro di Abu Omar da parte della Cia), e tanto per far capire che «la musica è cambiata» alza il tiro con un vecchio cavallo di battaglia degli esordi leghisti: il centro sociale Leoncavallo. Un attacco frontale. Una provocazione, che torna utile per farci capire che cosa è successo in questi quattordici anni, e soprattutto in questi ultimi demenziali mesi di securitarismo bipartisan. Il centro sociale più famoso d'Italia, simbolo di una opposizione sociale che non c'è più, minacciato addirittura «con l'uso della forza» da un ministro che dispone della polizia, a pochi giorni da uno sfratto che sulla carta diventerà esecutivo lunedì prossimo 23 giugno. Reazioni: quasi zero. «Il principio è quello di garantire la legalità dei comportamenti e la sicurezza dei cittadini: se ci saranno situazioni di illegalità saranno rimosse. La musica è cambiata, non tollereremo zone franche dove non vale il principio di illegalità e, se serve, useremo anche la forza».
Daniele Farina, storico portavoce del Leo, cerca di rispondere con ironia pur sapendo che è proprio dalle sue parti che la musica è cambiata per davvero: «Quanto all'intenzione di rimuovere con la forza le situazioni di illegalità immagino che il ministro si riferisse al comune di Milano che da tempo impedisce nei fatti la soluzione positiva di questa trentennale vicenda, opzione che registra invece il sostanziale accordo delle parti private interessate e il consenso di larghissima parte della città». La solita manfrina si è detto per troppi anni. Oggi, forse, non è più così. 

Ma così lo farà arrabbiare

di Andrea Fabozzi

su Il Manifesto del 17/06/2008

MA COSÌ LO FARÀ ARRABBIARE
Tra venerdì e sabato Walter Veltroni potrebbe arrabbiarsi. Se Berlusconi fa sul serio. Se veramente vuole bloccare i suoi processi (l'ha fatto). Se veramente vuole garantirsi per legge l'impunità (l'ha annunciato, ieri sera). Se veramente vuole impedire le intercettazioni, cancellare il diritto di cronaca (l'ha già fatto). Se tutto questo è vero, ma proprio vero vero, allora Veltroni potrebbe arrabbiarsi. Ma non subito. Non oggi, e neppure ieri. Venerdì. O sabato. Non precipitiamo. Effettivamente c'è sempre la possibilità che quello seduto a palazzo Chigi non sia il presidente del Consiglio in carica. Ma una replica di quello vecchio, «il principale esponente dello schieramento avversario» sì, ma del 2001.
Era quello che se ne fregava del dialogo e si faceva le leggi ad personam. Quello che se ne infischiava delle larghe intese e se la prendeva con le toghe rosse. Quello che il «nuovo clima costruttivo» neanche sapeva cosa fosse e intanto ricusava i giudici. Quello di ieri sera, insomma, ma più sincero. O meno abile. Il Berlusconi del 2008 è riuscito anche a preoccuparsi di Retequattro senza spezzare «il filo del dialogo» con il partito democratico. Ieri ha alzato la voce davanti al parlamento un po' come quell'altro cavaliere che nel gennaio 1925 rivendicò tutte le sue responsabilità. Berlusconi va avanti così. E Veltroni si preoccupa, così: «Il filo del dialogo rischia davvero di spezzarsi».
Rischia davvero, accidenti. E non perché il segretario del Pd abbia cominciato ad ascoltare la disperazione dei suoi elettori torturati dal cilicio buonista. Non perché Veltroni si sia messo a leggere i sondaggi o perché abbia dato uno sguardo alle elezioni siciliane di ieri (a Catania il Pdl è all'82%). Non perché si sia fatto convincere dai dubbi di chi pure gli è vicino, come Eugenio Scalfari. Il dialogo rischia - se è un rischio - di saltare perché lo deciderà Berlusconi. Che è tornato a palazzo Chigi per la storia, certo, ma anche un po' per i suoi problemi più immediati. Le buone relazioni con l'opposizione vengono dopo. Lui ha il governo.
La difficoltà del segretario del Pd ad aprire gli occhi è in fondo comprensibile. Anche ieri annunciando che potrebbe arrabbiarsi - venerdì, o sabato - ha subito aggiunto che in ogni caso l'opposizione sarebbe «responsabile» e per carità «non ideologica o strumentale». Cos'altro potrebbe fare a questo punto Veltroni che ha impostato tutta la sua strategia sulla mano tesa al cavaliere? Riconoscere di avere sbagliato significherebbe avviarsi a cedere il passo. Non è lui il segretario giusto per gestire un Pd di opposizione, non è più lui quello che può cambiare gioco. E' con le spalle al muro e Berlusconi lo prende a unghiate. Forse presto lo rianimerà, tornando dialogante. Come il gatto con il topo. Non è solo un problema di Veltroni, vista la composizione del parlamento. Se non c'è l'opposizione non c'è il cavaliere del 2008 e nemmeno del 2001 ma appunto quello del 1925. Il «clima» è brutto e molto vecchio. Che sia «nuovo» possono crederlo (fino a venerdì?) solo Veltroni, e Ratzinger.

 

Perché la tassazione delle rendite finanziarie è utile e necessaria

 

Guglielmo Forges Davanzati
Nell'elenco delle cose non fatte dal Governo Prodi va messo, ai primi posti, il mancato aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. Non solo perché ci si sarebbe aspettati da una coalizione di centrosinistra un provvedimento minimale di ridistribuzione del reddito - ovvero l'aumento delle aliquote fiscali dal 12.5% al 20%, peraltro in linea con la media europea - ma anche perché la continua crescita delle rendite finanziarie nuoce, e non poco, al sistema economico, e ai lavoratori in particolare. Si tratta di un processo che viene correntemente definito "finanziarizzazione", e che ha a che vedere con l'aumento dei profitti bancari e dei guadagni dei rentier; di coloro, cioè, che lucrano sulla compravendita di titoli e di prodotti finanziari.
L'evidenza empirica segnala che i processi di finanziarizzazione sono in atto da almeno un ventennio su scala internazionale, con andamenti crescenti. Recenti ricerche condotte negli Stati Uniti, in particolare da Gerald Epstein, dell'Università del Massachusetts, evidenziano anche la correlazione fra aumento del peso politico dei rentier, attuazione di processi di liberalizzazione dei mercati finanziari e aumento delle rendite. La vulgata neoliberista considera i mercati finanziari uno strumento di selezione delle imprese più efficienti, la cui efficienza è tanto maggiore quanto più deregolamentati sono quei mercati, dimenticando di rilevare che le liberalizzazioni producono un aumento complessivo degli oneri finanziari che ricadono in primo luogo sulle imprese. E' interessante, a riguardo, osservare che la quota delle rendite finanziarie sul Pil è tanto più elevata quanto maggiore è il grado di sviluppo di un Paese. In particolare, si rileva, su dati del Fondo monetario internazionale, che - nel decennio 1990-2000 - a fronte di una quota circa pari al 18% in Italia, gli Stati Uniti registrano una percentuale superiore al 33%.
Il che non desta sorpresa, se si abbandonano gli schemi di analisi oggi dominanti. Già Marx aveva osservato che - quando ciò è possibile - i capitalisti trovano spesso conveniente utilizzare i loro profitti per realizzare guadagni monetari nei mercati finanziari. Il meccanismo che rende oggi possibile, e conveniente, la dislocazione di risorse da usi produttivi a usi improduttivi è duplice: da un lato, le liberalizzazioni rendono quei mercati facilmente contendibili, consentendo quindi l'ingresso di nuovi operatori; dall'altro, perché tale dislocazione sia attuabile, i capitalisti devono disporre di fondi sufficienti per l'acquisto di prodotti finanziari. Lo scenario nel quale ci muoviamo da oltre un ventennio, infatti, è precisamente questo: alti profitti, alte rendite finanziarie, liberalizzazioni.
La finanziarizzazione accresce le passività finanziarie, soprattutto a danno delle imprese più piccole, strutturalmente più fragili, collocate nelle aree periferiche dello sviluppo capitalistico. Un numero abbastanza elevato di queste imprese, quelle che non possono reagire all'aumento dei costi aumentando i prezzi, né aumentando la produttività del lavoro e neppure comprimendo i salari, falliscono. Per restare al solo ambito nazionale, a riguardo, l'Istat registra al 2004 - ultimo anno di rilevazione disponibile - "tassi di sopravvivenza" di imprese nate nel 1999 pari a circa il 60% nel Nord (Nord-Est e Nord-Ovest) e a circa il 51% nel Sud e nelle Isole. Il fallimento di un numero significativo di imprese comporta l'aumento delle quote di mercato di imprese di più grandi dimensioni, strutturalmente più forti, localizzate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Anche per questa via, la finanziarizzazione si associa alla concentrazione dei capitali industriali, dal momento che crea le condizioni per processi di acquisizione e fusione, o comunque per un ampliamento delle quote di mercato delle imprese strutturalmente più forti. Ciò accade sia sotto forma di crescenti dimensioni d'impresa, sia sotto forma di crescente concentrazione geografica. La concentrazione, a sua volta, produce un duplice effetto. Da un lato, generando posizioni monopolistiche, determina processi inflazionistici, che comprimono i salari reali. Dall'altro, riducendo l'intensità competitiva, riduce il livello di produzione e di occupazione.
Si è dunque in presenza di una spirale viziosa, stando alla quale la liberalizzazione dei mercati finanziari tende a generare l'aumento delle rendite finanziarie, che finisce per gravare sul capitale produttivo come una forma occulta di tassazione. La quale viene, a sua volta, trasferita sul lavoro, generando cali di occupazione e dei salari reali, in una condizione - quella attuale - nella quale la capacità di resistenza del sindacato è ridotta ai minimi termini.
In questo contesto, appare dunque fuorviante leggere l'attuale "questione salariale" come questione che nasce e si sviluppa all'interno del mercato del lavoro. Quest'ultimo, per dirla con Keynes, resta un mercato "residuale", nel quale si riflettono contraddizioni che, in ultima analisi, originano dalla sfera finanziaria. Un piano di ridistribuzione del reddito che parta da un aumento della tassazione dei redditi (elevati) che derivano unicamente dagli scambi di "moneta" contro "moneta", che alimentano consumi opulenti e che frenano lo sviluppo non solo è un atto dovuto per ridurre gli attuali insostenibili squilibri distributivi, ma anche necessario per assicurarsi maggiore crescita economica.


Liberazione 13/06/2008

 

Amnesty condanna l'Italia: «È un Paese razzista, pericoloso»

 

L'Italia sta diventando un paese razzista, xenofobo, «pericoloso» per immigrati e rom , «domani per tutti noi». A dirlo è il focus del Rapporto 2008 presentato dalla direttrice dell'Ufficio campagne e ricerca della sezione italiana, Daniela Carboni, che ha sottolineato come «dichiarazioni discriminatorie da parte delle istituzioni e atti normativi approvati in modo affrettato e propagandistico» rischiano di aprire una vera e propria «caccia alle streghe».

Insieme al Rapporto Annuale 2008, Amnesty International ha presentato anche una scheda di approfondimento e aggiornamento sull'Italia dove discriminazione e xenofobia stanno crescendo di giorno in giorno e dove, con il nuovo "pacchetto sicurezza", essere clandestino dovrebbe diventare un reato.

Daniela Carboni, direttrice dell'Ufficio campagne e ricerca della Sezione Italiana di Amnesty International, parte proprio da un caso di cronaca piuttosto recente, l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma lo scorso ottobre, per far capire come spesso gli eventi vengano distorti creando una caccia alle streghe indiscriminata. «La violenza su una donna è diventata l'occasione per discriminare una minoranza etnica», ha detto Carboni. Giovanna Reggiani fu infatti uccisa da Romulus Nicolae Mailat, cittadino romeno ritenuto appartenente alla minoranza rom.

Il caso reggiani scatenò critiche bipartisan contro la Romania e gli immigrati romeni, al punto che l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati -l'Unhcr - in novembre espresse preoccupazione per il clima di intolleranza manifestato nei giorni successivi all'omicidio e per «lo stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell'immigrazione messe in atto dalla politica».

Tra il 2007 e il 2008 si sono poi verificati numerosi attacchi violenti ad accampamenti rom e ad altre minoranze in diverse città. «Siamo allarmati dai toni discriminatori sui rom. Devono essere aperte inchieste, dati risarcimenti alle famiglie rom colpite a garantire sicurezza a queste comunità», ha affermato Daniela Carboni che ha poi lanciato un appello alle istituzioni italiane affinché «imparino che parlare di diritti umani per gli immigrati non è impopolare».

Critiche al cosiddetto "pacchetto sicurezza" che include un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato, e che rende una circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare. Nel disegno di legge si vuole portare anche a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei Centri di permanenza, oggi di 60 giorni. «Una riforma normativa che ha messo in allarme diverse Ong oltre allo stesso Alto Commissariato Onu per i rifugiati», ha fatto notare Carboni.

Ma Amnesty nella sua scheda esprime critiche anche al decreto Pisanu del 2005 che, nonostante le richieste della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, il governo di centrosinistra ha mantenuto pressoché immutato. Il decreto prevedeva l'espulsione di immigrati regolari e irregolari sulla basa di «una vaga definizione del rischio da essi posto» e senza tutela contro il rimpatrio forzato in paesi in cui rischiano la tortura o altri abusi. In base a questo decreto nel 2006 sarebbe dovuto essere espulso il cittadino tunisino Nassim Saadi, ma il procedimento di espulsione fu bloccato e poi annullato nel febbraio di quest'anno dalla Corte europea dei diritti umani.

Amnesty rileva anche altre lacune nella legislazione italiana, come il mancato recepimento nella sua interezza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: l'Italia è priva di uno specifico reato di tortura nel codice penale e ciò comporta delle ricadute sulla possibilità che le forze di polizia rispondano di eventuali abusi. A ciò si aggiunge la mancanza di forme di identificazione dei singoli agenti di polizia durante le operazioni di ordine pubblico, e l'assenza di organismi indipendenti di monitoraggio. Questa situazione si riflette ad esempio sui processi per le violenze commesse contro i manifestanti durante il G8 di Genova nel 2001. «Diversi imputati invece che essere puniti sono stati promossi», ha detto Carboni.

Se a livello internazionale la guerra al terrorismo sta erodendo la difesa dei diritti umani, l'Italia non è da meno. Anche nel nostro paese l'approccio delle autorità di governo è condizionato dalla politica del sospetto.

Caso esemplare è quello della rendition: il programma segreto della Cia per la cattura e detenzione fuori dalla legalità "normale" di sospetti terroristi. Come il caso dell'imam egiziano Abu Omar, prelevato a Milano nel 2003 e trasferito in Egitto dove avrebbe subito torture. Secondo Amnesty, il governo italiano non avrebbe collaborato pienamente alle indagini degli organismi internazionali che hanno «accertato precise responsabilità dell'Italia nelle rendition. Oltre ad Abu Omar il Parlamento Europeo ha chiamato in causa l'Italia anche per altri due casi.

Amnesty denuncia anche la scarsa trasparenza negli accordi bilaterali tra Italia e Libia sul pattugliamento marittimo congiunto delle coste per contrastare l'immigrazione irregolare, e critica duramente l'esportazione di armi da parte dell'Italia verso quei paesi che sfruttano i bambini soldato». Lancio un appello al governo italiano - ha detto Daniela Carboni - scelga una volta per tutte se rispettare o violare i diritti umani sia nelle parole che negli atti».

L'Europa continua ad essere una «calamita» per quanti cercano di fuggire da violenze e povertà ma il Vecchio Continente continua a deluderli con approcci repressivi verso l'immigrazione irregolare, scrive Amnesty.

Ma il Vecchio continente che si considera ancora in prima fila nella lotta alla violazione dei diritti umani, è diventato complice degli Stati Uniti. E ora specie per i rifugiati ha assai poco da insegnare al resto del mondo. Troppi paesi europei sono pronti a rispedire persone ritenute sospetti terroristi in paesi dove rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani. Ma Amnesty denuncia anche il fatto che semplici migranti - uomini, donne e bambini - si sono visti negare anche l'accesso alle procedure per la richiesta di asilo e spesso vengono abbandonati in stato di completa indigenza. «Nuove leggi in Paesi come Belgio, Francia e Svizzera hanno limitato ulteriormente i diritti di richiedenti asilo e migranti», scrive Amnesty. Anche l'Italia.

 

Unità.it

Rapporto Amnesty Italia sui diritti umani

 

I dati del rapporto 2008 sull'export di armi italiane

 

 

 

www.banchearmate.it/home.htm

 Armi e guerre, il business senza la crisi

di ----

su Liberazione del 10/06/2008

All'inizio del 2008 si contavano 26 conflitti in corso nel mondo, mentre la spesa militare mondiale ha superato i 1.200 miliardi di dollari l'anno. E' quanto si legge nel "Rapporto sui diritti globali 2008" curato dall'Associazione Società dell'Informazione pubblicato ieri. Delle 26 guerre in corso, undici sono in Asia, dieci in Africa, tre in Medio Oriente, una in America Latina e una in Europa, nota il rapporto, secondo il quale «il mondo è troppo instabile per essere gestito come negli ultimi anni». «La risposta data dall'amministrazione Bush/Cheney agli attentati dell'11 settembre 2001 è stata infatti quella auspicata da chi li ha progettati: creare una spirale guerra-terrorismo», afferma il documento, riferendosi alla politica adottata dagli Stati Uniti.
Negli ultimi dieci anni si è registrata una crescita del 37% delle spese militari mondiali, che ha superato i 1.200 miliardi di dollari. Sono 15 i paesi che spendono l'83% del totale, con gli Stati Uniti che da soli coprono il 46% della spesa complessiva. Per il 2008/2009 il bilancio americano destinato alla Difesa è di 515 miliardi di dollari con una crescita dell'8% rispetto all'anno precedente. Secondo le stime riportate dal rapporto, il costo complessivo della sola guerra in Iraq potrebbe raggiungere 2.267 miliardi di dollari entro il 2016. Gli Stati Uniti sono anche il primo paese esportatore di armamenti: nel 2006 hanno sfiorato gli otto miliardi di dollari di vendite, pari al 30% dell'export globale. Al secondo posto vi è la Russia con sette miliardi di vendite nel 2007. In Europa, la Gran Bretagna è al primo posto per spese militari (59,2 miliardi di dollari), seguita dalla Francia (53,1 miliardi) e Germania (37 miliardi) nel 2007. L'Italia è all'ottavo posto (29,9 miliardi di dollari nel 2006), con un aumento di circa due miliardi per le spese di difesa nel 2008.
Il rapporto sottolinea la continua instabilità dell'area del Grande Medio Oriente, soffermandosi in particolare sull'Iraq dove dopo cinque anni di guerra non si vedono vincitori «ma è certo che a perdere è stata la popolazione irachena». La Mezzaluna Rossa fa una stima di un milione di morti, l'Oms e il governo iracheno di 150mila, mentre l'organizzazione Iraq Body Count elenca 90mila vittime civili e 4.740 morti fra i soldati internazionali. In Afghanistan e Pakistan la situazione appare sempre più intecciata con la nascita di quello che viene ora chiamato il "talibanistan" nell'area di confine fra i due paesi. Intanto in Pakistan, dall'inizio del 2007 al marzo 2008 sono morte 1.040 persone in 116 attentati terroristici, costati la vita anche all'ex premier Benazir Bhutto. In Afghanistan, il 2007 è stato l'anno più sanguinoso dai tempi della guerra civile negli anni Novanta: sono morte circa 6000 persone, fra cui almeno 2000 civili. Tra i militari della coalizione internazionale i morti sono stati 786 dal 2001, di cui 232 nel 2007.
Il rapporto sottolinea il peggioramento della "infinita crisi israelo-palestinese", sia dal punto di vista politico che sociale, esprimendo dubbi sul possibile raggiungimento dell'obiettivo di una pace entro il 2008. Il numero dei morti dall'inizio della seconda intifada nel 2000, ha intanto raggiunto in marzo quota 6.318 (5.173 palestinesi, 1067 israeliani, 78 di altre nazionalità). Infine il rapporto si sofferma sul "disastro africano" sottolineando che in questo continente si svolge circa la metà delle guerre ad alta intensità, con un costo di 300 miliardi di dollari dal 1990 ad oggi, più o meno equivalente agli aiuti allo sviluppo versati nello stesso periodo. Ai circa mille morti al giorno, si aggiunge un numero impressionante di morti indirette, stimato 14 volte superiore a quello nei combattimenti.

 

News

13.03.2008 14:37

CORRI OPERAIO CORRI. E CREPA

CORRI OPERAIO CORRI. E CREPA di Loris Campetti su Il Manifesto del 13/03/2008   La lotta di classe è finita perché gli interessi degli operai e degli imprenditori convergono. Ma gli operai - spremuti come agrumi, costretti ad accelerare i tempi della prestazione per garantire la...
10.03.2008 16:40

Paragoni poltiici. Oggi in Spagna, domani in Italia

su redazione del 10/03/2008 da www.lanternerosse.it Fate un paragone. Fatelo tra il Partito Socialista di Zapatero e il Partito democratico di Veltroni. Provate a cercare delle somiglianze, dei punti di incontro politici, civili, ideali. Il risultato che ne viene fuori è desolante. L'ex sindaco...
10.03.2008 15:51

Un Monarca, per favore

Un monarca, per favore di Rossana Rossanda su Il Manifesto del 10/03/2008 Quaranta anni fa, dopo il 1968, c'era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d'Europa. Ognuno sentì che...
07.03.2008 18:31

8 MARZO 2008, PER UNA VOLTA STA' ZITTO!

  8 MARZO 2008, PER UNA VOLTA STA' ZITTO!   https://www.rifondazione.it/forumdonne/  
07.03.2008 17:52

Gaza - rompere l'assedo, rompere il silenzio

FIRMA LA PETIZIONE Gaza. rompere l'assedio, rompere il silenzio GAZA ROMPERE L’ASSEDIO ROMPERE IL SILENZIO   Vi è una striscia di terra dove 1.500.000 di persone, donne, uomini, bambini ed anziani sono stati assediati e rinchiusi in una prigione a cielo aperto dal governo...
07.03.2008 17:46

Sinistra Arcobaleno - un programma "di parte"

Sinistra Arcobaleno. Un programma “di parte” . Perché la vera democrazia deve includere tutti Tutele, diritti, ricchezza, libertà, partecipazione. La sostanza della democrazia nel programma della lista unitaria   di Anna Maria Bruni Ecco il programma della Sinistra Arcobaleno. E’ stato...
07.03.2008 17:25

LO SAI CHE IN ITALIA C'E' LA BOMBA ATOMICA?

Un futuro senza atomiche Dal 19 al 26 c'è la raccolta firme in tutta Italia   Nel 1975 l’Italia ha ratificato il Trattato di Non Proliferazione nucleare impegnandosi (art. 2) a non produrre né ad accettare mai sul proprio territorio armi nucleari. In Italia, invece, abbiamo 90 testate...
06.03.2008 16:58

Fai una scelta di parte

L'appello del candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno, Fausto Bertinotti. 01/03/2008 - Cara compagna, caro compagno, Cara amica, caro amico, Abbiamo scelto di essere di parte ...
05.03.2008 17:59

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  Italia contro le cluster? di Marco Bargigia Si è chiusa venerdì 22 febbraio una conferenza a Wellington, in Nuova Zelanda, sull’abolizione delle cluster bomb: 5 giorni di...
02.03.2008 16:46

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Evviva i clandestini, sono eroi perseguitati in tutt'Europa

 

Piero Sansonetti
Oggi, in tutto il mondo, è la giornata del rifugiato. Proclamata dall'Onu. L'Italia ha aderito. Per solidarietà, il Colosseo sarà illuminato per tre giorni, e sarà proiettata una scritta che riporta lo slogan ufficiale della manifestazione: «Proteggere i rifugiati è un dovere. Essere protetti è un diritto». Chi è un rifugiato? E' qualcuno che fugge dal suo paese perché nel suo paese lui o lei e la loro famiglia rischiano la vita. Per motivi politici, o perché non c'è da mangiare, o per altre ragioni del genere. Una piccola parte dei rifugiati (una piccolissima parte dei rifugiati) dopo molto mesi di tribolazione ottiene l'asilo politico. Tutti gli altri vivono da clandestini. A pagina sei di questo giornale pubblichiamo un articolo molto bello, tratto da «Misna» («Misna» è una agenzia di informazione internazionale che fa capo al coordinamento di alcune missioni cattoliche). In questo articolo si spiegano due cose. La prima è che tutte le iniziative di legge e di contrasto militare contro l'immigrazione (il pattugliamento del Mediterraneo, per esempio) non scoraggiano l'immigrazione clandestina, semplicemente la riducono attraverso la soppressione di un certo numero di immigrati. Presidiare le rotte più facili, dall'Africa, ha come unica conseguenza che i migranti prendono rotte più dififcile e, in molti, muoiono. La seconda cosa che dice questo articolo è che i migranti sono degli eroi. Nel senso classico della parola: loro mettono a rischio la propria vita per raggiungere un paese dove saranno brutalmente sfruttati ma riusciramno ad ottenere quei soldi necessari per mantenere le proprie famiglie, curare i propri malati, dar da mangiare ai propri bambini.
Noi europei, alla viglia della giornata del rifugiato, scriviamo sul Colosseo che essere protetti è un diritto del rifugiato, e contemporanemente variamo una legge che dice che essere clandestini all'estero (cioè essere rifugiati) è un reato, e una direttiva europea che prescrive l'espulsione dei rifugiati, anche se sono bambini senza genitori, oppure la loro detenzione senza processo per 18 mesi in un campo di concentramento.
Secondo voi c'è un barlume di civiltà in questi comportamenti? Se trovate un barlume di civiltà segnalatecelo. Noi non ne abbiamo trovato.

 

«I parlamentari europei devono saperlo: quella direttiva porterà solo nuove vittime»

 

Le ong migranti africane

«L'unica conseguenza del rafforzamento delle misure di sicurezza per lottare contro la cosiddetta "immigrazione clandestina" è stata finora un aumento dei morti sulle rotte dei migranti. I parlamentari europei devono saperlo: avendo approvato la direttiva sui rimpatri contribuiscono indirettamente alla morte di nuove persone»: non è velata l'indignazione di Hicham Rachidi, esponente della società civile marocchina e del Gruppo antirazzista di difesa degli stranieri e dei migranti in Marocco (Gaddem), quando commenta la nuova normativa approvata ieri dal parlamento di Strasburgo, aggiungendo: «Reprimere, bloccare, punire non farà cambiare idea a chi ha deciso di partire e tentare una nuova vita altrove. Il flusso non è mai diminuito; si sono invece aperte nuove rotte, più pericolose, più lunghe e difficili, ma chi vuole andarsene è pronto a tutto». Spesso, la scelta di partire per l'Europa è ben preparata e concordata con la famiglia: «Per noi - afferma Rachidi - i migranti non sono clandestini, ma eroi, grazie ai quali un fratellino o una sorellina in patria può andare a scuola, una madre può fare la spesa, una famiglia può sopravvivere. E il contributo degli stranieri all'economia europea è ampiamente dimostrato. Sul nostro pianeta, non esistono clandestini!» Dello stesso parere è Raymond Yoro Bi Ta, presidente dell'Associazione interafricana per la promozione e la difesa dei diritti dei rifugiati e richiedenti d'asilo (Aipdrda) con sede in Benin, convinto che chiudere la "fortezza Europa" non è un deterrente per i candidati all'emigrazione. «I colonizzatori europei sono venuti fino alle zone più remote del mio paese natale, la Costa d'Avorio; perché noi africani non dovremmo poter andare in Europa e avere la possibilità di trovare un lavoro e una vita migliore?» s'interroga Yoro Bi Ta mentre parla con la MISNA dal Mali, dove sta partecipando alla preparazione del prossimo Forum dei popoli previsto dal 6 al 9 luglio a Koulikouro. «Il Forum sarà un'occasione per preparare una degna risposta all'Europa, siamo sicuri che l'argomento sarà centrale» continua Yoro Bi Ta, colpito e stupito dal voto europeo su quelli che non chiama né clandestini né immigrati o migranti, ma semplicemente viaggiatori. «Allorché molte organizzazioni della società civile si battono per costruire un mondo più unito, i politici stanno agendo per dividerci» continua l'esponente ivoriano, che auspica comunque un miglioramento delle politiche africane per accrescere il benessere delle popolazioni sul continente. Rachidi conclude: «Chiediamo ai nostri governi di non firmare alcuna intesa con l'Europa sul rimpatrio dei migranti, alle aziende di trasporto e agli agenti della dogana di non accettare gli espulsi: il contrario sarebbe un tradimento».
Misna

a cura di Celine Camoin

 

Il governo Berlusconi all'attacco dei servizi pubblici locali. Serve un'allenza contro le privatizzazioni

di Attac Italia

su Liberazione del 17/06/2008

Come se decenni di mercificazione dei beni comuni e di messa sul mercato dei servizi pubblici locali non avessero già ampiamente dimostrato i disastrosi risultati della consegna degli stessi al mercato e ai privati, anche il nuovo Governo ci riprova.
Il Ministro dell'Economia Tremonti ha annunciato che il prossimo 18 giugno, in sede di presentazione del Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), allegherà allo stesso un "Piano per lo sviluppo" che, tra le altre cose, prevede un decreto o un disegno di legge per la messa a gara della gestione di tutti i servizi pubblici locali.
Il solerte Ministro ha inoltre tenuto più volte a precisare come la privatizzazione riguarderà anche l'acqua, dimostrando la precisa volontà di attaccare il movimento che in questi anni si è prodotto con più forza e radicamento territoriale.
E, se qualcuno coltivasse qualche illusione di possibilità parlamentare, ci ha pensato la ministro-ombra del Pd, Lanzillotta, a dichiarare il consenso bipartisan dell'intero Parlamento.
Siamo alle solite.
Il modello neoliberista, per continuare ad esistere, ha assoluto bisogno della valorizzazione finanziaria e della messa sul mercato dei beni comuni, in una logica di espropriazione totale dei diritti e di precarizzazione completa della vita delle persone.
Perché si dispieghi l'orizzonte della solitudine competitiva -ciascuno lasciato solo sul mercato in diretta competizione con l'altro- occorre eliminare qualsiasi orizzonte di comune condivisione, qualsiasi spazio pubblico, qualsiasi diritto sociale.
Da qui l'attacco strumentale ai "fannulloni" del lavoro pubblico, il tentativo di eliminare il contratto nazionale e l'espressa volontà di precarizzare definitivamente il lavoro.
Da qui il disegno di privatizzazione totale dei beni comuni e dei servizi pubblici locali per consegnarli ai poteri forti del grande capitale finanziario.
Lasciando al pubblico il solo ruolo di gendarme, e dispiegando in funzione di esso le politiche securitarie, attraverso una attenta seminagione dell'intolleranza sociale e del razzismo contro ogni diversità e della trasformazione in problema di ordine pubblico di ogni conflittualità sociale.
Occorre respingere con forza questa nuova ondata di privatizzazioni.
Perché la consegna al mercato dei beni comuni e dei servizi pubblici è un'espropriazione di democrazia.
Perché tutte le lotte per la ripubblicizzazione dell'acqua, per una diversa politica dei rifiuti che faccia a meno di discariche ed inceneritori, per un nuovo piano energetico che dica basta alla proliferazione di centrali fossili e nucleari e si basi sul risparmio energetico, per un diverso modo di muoversi e di abitare i territori urbani sarebbero vanificate dalla definitiva consegna al mercato di questi beni.
Perché il mercato non conserva, avendo tutto l'interesse a dissipare.
Perché il mercato non universalizza, avendo tutto l'interesse a dividere.
Crediamo sia giunto il momento, così come è stato per la lotta alla direttiva Bolkestein e per il contrasto al precedente Ddl Lanzillotta, di costruire da subito una nuova alleanza contro la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici che metta insieme tutte le forze e le realtà che in questi anni, dentro i territori e attraverso esperienze di partecipazione dal basso, hanno indicato la strada di un altro modello sociale e di un altro mondo possibile.
Dicono che privatizzare significa entrare nella modernità.
Non ci interessa. Noi abbiamo in mente il futuro.

 

Inflazione senza freni

di Mauro Ravarino

su Il Manifesto del 17/06/2008

Record europeo: +3,7%. Pesano alimentari e carburanti. Scajola: interverremo

I prezzi di pasta, uova e latte sono alle stelle, le bollette di luce e gas lievitano e l'inflazione nell'eurozona raggiunge un record storico. Sale al 3,7%, rispetto al 3,3% di aprile, secondo i dati comunicati dall'istituto Eurostat. È il tasso più alto dal 1999, l'anno stesso in cui fu creata l'eurozona. Dodici mesi fa era all'1,9%. Il principale imputato dell'aumento dei prezzi è ovviamente il vistoso rincaro del greggio. Bruxelles, attraverso il commissario agli Affari economici Joaquim Almunia, esprime forte preoccupazione e auspica che «non si inneschi una spirale prezzi-salari». Intanto, il governo italiano si prepara a varare mercoledì un provvedimento per contrastare l'aumento del costo dei carburanti.
Dopo aver sfiorato il 3% a fine 2007, l'indice dei prezzi al consumo è sempre rimasto al di sopra di questo tetto. A pesare maggiormanete sull'inflazione di Eurolandia sono i paesi con un tasso superiore alla media: Slovenia, Belgio, Grecia, Spagna, Lussemburgo, Cipro, Finlandia, Malta e Austria. L'inflazione più bassa riguarda, invece, Olanda, Portogallo e Germania. L'Italia è in perfetta media con il valore europeo (3,7%); il tasso è aumentato dello 0,6% rispetto ad aprile. È negativo anche il dato dell'intera Unione europea, con un'inflazione che sfiora ormai il 4%: in maggio è salita al 3,9%, rispetto al 3,6% del mese precedente e al 2,1% di un anno fa. I picchi, al di sopra del 10%, si registrano in Lettonia, Bulgaria e Lituania, tutti paesi di recente adesione.
Il portafoglio degli europei è sempre più leggero. A influenzare i tassi inflattivi sono soprattutto i generi alimentari (+6,4% annuale), con latte, uova e formaggio al +13,6%, i trasporti (+5,9%) e il mercato immobiliare (+5,7%). Complessivamente, secondo Eurostat, all'interno di questi indici il costo di benzina e carburanti è quello che ha avuto l'aumento più vistoso (+0,55% a maggio su aprile); dato che si ripercuote sull'indice delle voci energetiche, cresciuto del 13,7% nell'ultimo anno.
A Bruxelles l'inflazione resta la principale preoccupazione. La portavoce del commissario Almunia, Amelia Torres, ha sostenuto che «governi e parti sociali devono essere estremamente attenti per evitare una spirale prezzi-salari che non sarebbe nell'interesse di nessuno, specialmente dei lavoratori europei». Le persistenti pressioni da parte dei prezzi del petrolio e delle materie prime, come si è visto, hanno aumentato i rischi di inflazione nell'area dell'euro. «Il nostro scenario - ha spiegato Almunia nel corso di un meeting dei ministri finanziari europei e asiatici nella Corea del Sud - prevede rischi al rialzo». Anche se è ancora presto per dire se le stime dell'Ue, che quest'anno ha previsto quota 3,2%, saranno riviste ulteriormente.
Il caro-greggio (ieri un nuovo record a New York con il petrolio a 139,89 dollari al barile) spinge le bollette di gas e luce: dal primo luglio in Italia le tariffe rischiano una nuova impennata, con aumenti del 4,6% per il gas e del 2,2% per la luce. La spesa complessiva degli italiani, secondo Nomisma, per le bollette della luce e del gas potrebbe lievitare così di quasi 56 euro su base annua rispetto ai livelli attuali. Nel frattempo, il governo Berlusconi promette interventi per contrastare i rincari. Il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola ha annunciato, riferendosi al pacchetto energia all'esame del consiglio dei ministri mercoledì, che inserirà « qualcosa per aiutare la riduzione del costo del carburante». Per il ministro Scajola il caro petrolio, fonte principale dell'aumento dei prezzi, è dovuto a diversi fattori come la richiesta crescente dei paesi emergenti e aspetti di carattere speculativo. «Metteremo - ha concluso il ministro - anche un rafforzamento dei poteri del garante sui prezzi, proprio perché nessuno pensi di fare il furbo e aumenti i prezzi più del dovuto».

 

 Sinistra, i danni dell'arcobalenismo e il riformismo che non c'è

Giorgio Cremaschi


A due mesi dalla sconfitta elettorale del centrosinistra se ne può misurare la portata nel successo pieno della destra, della sua agenda politica, dei suoi sentimenti profondi. E' chiaro oramai che quello di aprile non è stato un semplice cambio di maggioranza, ma la sconfitta strategica del progetto e delle forze che da 15 anni hanno contrastato la riorganizzazione della destra attorno a Berlusconi. Una sconfitta che ha fatto sì che quello italiano sia il solo parlamento d'Europa senza forze esplicitamente socialiste e comuniste, e che va intitolata sia alle forze più moderate che a quelle più radicali del centro sinistra. Sono due sconfitte contemporanee, che proprio per questo fanno sì che oggi Berlusconi si trovi di fronte ben poco sul piano politico e istituzionale, mentre dilagano spinte xenofobe, intolleranti, autoritarie ed il padronato sogna e rivendica, con vasto consenso, praticamente tutto.

L'inesistenza di una forte opposizione politica è il frutto finale e più velenoso della politica di questi 15 anni. Ed è per questo che, per ricostruire l'opposizione, bisogna riconoscere le ragioni della sconfitta. E così anche risalire alle responsabilità soggettive, che in politica ci sono sempre.
Contrariamente a quello che viene sostenuto dai grandi giornali d'opinione, che dopo aver per anni fatto proprio un centrosinistra liberale oggi si prostrano di fronte a Berlusconi, la prima sconfitta è quella del riformismo politico italiano. Il riformismo è oggi una ideologia politica che pensa di governare la globalizzazione attraverso il pieno dispiegamento del mercato, di cui si vorrebbero frenare solo le tendenze monopoliste, e la riduzione dello Stato e delle garanzie sociali, concertata con i sindacati. In Europa il riferimento principale di questa ideologia è stato il leader laburista Blair: oggi il suo partito si sta sfaldando e si annuncia il ritorno al governo dei conservatori.
In Italia però il riformismo politico ha assunto una particolare caratteristica, che lo ha reso particolarmente fragile se misurato con quello assunto da altre sinistre europee che reggono di più, come in Spagna. Se è vero che in tutta Europa, di fronte alla globalizzazione, la politica liberista e del meno peggio adottata dalle socialdemocrazie sta portando a una tendenza a destra che è opposta a ciò che accade in tutto il mondo, è vero che in Italia il riformismo politico ha fatto più danni. Questo perché esso è figlio della crisi e della distruzione dei tre grandi partiti storici del nostro paese, la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista. In Italia il riformismo politico è figlio dell'istinto di sopravvivenza del ceto politico di quei partiti. Per dirla brutalmente, è diventato una variante del trasformismo. Il lungo confronto tra questo riformismo e Berlusconi si è concluso con la vittoria di quest'ultimo che ne ha occupato saldamente il campo, come appare evidente non appena il confronto politico tocca temi concreti.
In questo contesto la sinistra radicale ha avuto una funzione anch'essa negativa in quanto, con i modi e i contenuti della presenza al governo ha alimentato solo sconcerto, riflusso, rabbia e rassegnazione. In particolare in quelle forze, in quei movimenti, che più costituivano un antidoto alla subalternità del riformismo italiano. In una situazione delicatissima, con una fragilità oggi chiara di equilibri sociali e culturali, ciò ha prodotto un effetto valanga su difficoltà e crisi già vive.
Il governo Prodi ha cominciato a distruggere il blocco sociale e i legami con chi l'aveva sostenuto, un attimo dopo essersi insediato nelle sue funzioni. E' bene ricordare infatti che se è vero che il vantaggio alla Camera del centrosinistra era di soli 25mila voti, nel mese di giugno, nel referendum contro il federalismo e la riforma costituzionale di Berlusconi, il consenso fu del 60%. Era quindi possibile allargare la risicata maggioranza elettorale trasformandola in una vera maggioranza popolare alternativa alla destra. Invece già con la finanziaria del 2006-2007 cominciò l'alacre opera di distruzione dei legami e delle speranze nei movimenti e nel mondo del lavoro. Il 7 dicembre del 2006 gli operai di Mirafiori travolgevano di fischi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e la loro politica di consenso verso le scelte del governo.
Qui la crisi politica si intrecciava con quella sindacale, in particolare della Cgil, che più di tutti agli occhi de lavoratori era identificata con il governo, anche perché nulla faceva per dimostrare il contrario. Il patrimonio di credibilità accumulato nella lotta in difesa dell'articolo 18 veniva dilapidato nell'assenza di iniziativa di fronte al crollo del potere d'acquisto dei salari e ai danni della politica dei due tempi adottata dal governo. La Cisl riprendeva così la guida delle scelte confederali, mentre la questione sindacale spariva dall' agenda sinistra radicale, che anche qui rinunciava ad una sua istanza fondamentale. Così ci si è opposti solo all'ultimo minuto al protocollo del 23 luglio 2007, dopo che si è lavorato insieme a Cgil, Cisl e Uil passo passo per costruirlo, salvo poi scartare quando improvvisamente si veniva scartati dal tavolo di negoziazione.
D'altra parte era chiaro che tutta l'analisi che accompagnava l'alleanza con Prodi era sbagliata. Sopravvalutati i movimenti, sottovalutata la spinta conservatrice dell'Ulivo, non compresa la crisi della globalizzazione, con il ritorno delle politiche statali, magari gestite dalla destra, con la paura diffusa tra i tanti che stanno peggio, paura che il riformismo semplicemente ignora. Ma tutto questo è forse meno grave dell'atteggiamento di arrogante chiusura che si è avuto nei confronti di chi obiettava, di chi dissentiva. Fino allo scandalo della sommaria espulsione da Rifondazione comunista di Franco Turigliatto, che dissentiva su pace e guerra, mentre il governo dava il via libera alla base di Vicenza. Inutile e persino fastidioso l'appello ai movimenti, alle lotte, se ogni volta che c'era un'iniziativa, una mobilitazione, la reazione era quella impaurita di chi non sapeva bene cosa fare e comunque doveva subito premettere che non poteva essere messo in crisi il governo.
Non ci si può stupire poi se chi avrebbe dovuto lottare, nelle fabbriche, nel lavoro precario, nei territori e nei quartieri, abbia oscillato continuamente tra rabbia e rassegnazione. Tutti i gruppi dirigenti della sinistra radicale per due anni hanno solo comunicato impotenza. Né mi si venga a dire che sto sopravvalutando la forza reale di Rifondazione comunista e degli altri partiti, e che più di tanto non poteva fare. Non è così. Nel 2001, a Genova, si erano poste le basi per l'aggregazione di un popolo di sinistra altrettanto forte, diffuso e determinato, da potersi misurare con quello che si stava organizzando a destra. Pochi anni dopo al referendum sull'articolo 18, nonostante la contrarietà del 90% dello schieramento politico, dell'informazione e delle organizzazioni sociali, ben 11 milioni di persone avevano scelto una posizione di difesa avanzata dei diritti del lavoro. C'era un popolo di sinistra che poteva costruire legami e progetti, invece è stato da un lato inutilmente esaltato, dall'altro debilitato dalla gestione concreta dell'esperienza di governo.
Si potrebbe andare avanti a lungo nel sottolineare come, di fronte all'evidente subalternità alla destra del riformismo politico, il fallimento specifico della sinistra radicale e di Rifondazione comunista sia stato proprio nel non avere esercitato alcuna controtendenza e non aver costruito alcuna alternativa. So bene che a questo punto l'obiezione è: ma allora bisognava fare come il ‘98? In Germania Oscar Lafontaine ci mise un mese, quando era al governo con Schroeder, per capire che la politica economica liberista della sinistra non poteva essere né sostenuta né mitigata. Qui le ragioni del '98, forse anche un certo pentimento per esso, sono state semplicemente rimosse, a favore di un patto tra gruppi dirigenti che si pensava avrebbe garantito da ogni difficoltà. E invece questa volta il '98 l'hanno fatto gli elettori, abbandonando il centrosinistra e, in particolare, la sua sinistra.
La riflessione sul perché siamo arrivati sin qui potrebbe essere meno necessaria e pedante, se vivessimo in un clima di autocritica , modestia, cambiamento di obiettivi e soprattutto pratiche. Invece il Partito democratico continua imperterrito come se avesse vinto le elezioni e le sue posizioni sono subalterne o ininfluenti rispetto a Berlusconi fino alla caricatura. La sinistra radicale a sua volta si è frantumata, ma vedo che in essa è ancora presente la tentazione di saltare l'analisi di questi due anni catastrofici e di riproporre formule aggregative, unioni di ceto politico, come soluzione della crisi. Riformismo politico e arcobalenismo continuano a far danni.
Intanto l'offensiva della destra e della Confindustria prosegue e si rafforza. Sono all'ordine del giorno la liquidazione del contratto nazionale, quel federalismo non solidale che solo due anni fa era stato respinto dalla maggioranza del paese, l'esaltazione del sacro egoismo del lavoratore, dell'impresa, del territorio, naturalmente temprati dalla minaccia dell'intervento dell'esercito, se poi non si va nella direzione voluta.
La ricostruzione delle sinistre parte dalla capacità di fermare questa deriva e la rottura con il riformismo politico italiano è la premessa necessaria per l'opposizione. Ciò non significa la rinuncia a ogni forma di gradualismo e di articolazione. Ma il riformismo ideologico, travolto e assorbito da Berlusconi, non è un interlocutore per chi voglia ricostruire in Italia la sinistra e il conflitto sociale: quando si ricomincerà a lottare, allora emergeranno altri interlocutori, altri riferimenti anche in quello che è oggi lo schieramento riformista.
Bisogna definire un programma d'azione. Bisogna dire no a questa Europa delle banche e del patto di stabilità. Bisogna ricostruire il conflitto sociale contro la concertazione. Bisogna ricostruire il potere dei cittadini contro amministrazioni comunali, di destra e di sinistra, ostaggi dei poteri forti dell'economia e dell'informazione. Bisogna combattere il neofascismo e contrastare la deriva sicuritaria e intollerante, affrontando il disagio sociale che viene usato per alimentarla.
Questa è la discussione politica di oggi e qui occorrono scelte nette, che saranno credibili solo se partono dalla rottura con l'esperienza degli ultimi anni. Per questo mi auguro che Rifondazione consideri concluso e non riproponibile l'impianto politico e di gestione che ha portato al disastro attuale. E' una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Infatti, dopo il disastro, è illusorio pensare che si possa semplicemente restaurare la situazione precedente. Con molta modestia tutti coloro che vogliono ricostruire opposizione ed antagonismo dovranno trovare obiettivi e sedi comuni, partendo dalle forze reali che sono rimaste. Si ricomincia stando dalla parte di chi nel dicembre 2006 fischiava.


Liberazione 12/06/2008

 

Incostituzionale, ma intanto si salva

di Giuseppe Di Lello

su Il Manifesto del 17/06/2008

Chi credeva che il cavaliere plebiscitato avrebbe indossato i panni dello statista e, abbandonata la cura dei propri affari, si sarebbe avvalso della sua enorme maggioranza parlamentare solo per risolvere i grandi problemi del paese, è servito. I due emendamenti inseriti surrettiziamente nel decreto legge n.92/2008 sulla sicurezza parlano chiaro e parlano proprio della sospensione del suo processo per corruzione che ormai era arrivato alla sentenza.
Con il primo si dispone che, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi bisognerà assegnare la precedenza assoluta ad una serie di delitti gravi, che coinvolgono la criminalità organizzata e abbiano imputati detenuti. Con il secondo, al fine di assicurare la trattazione dei processi di cui sopra, i procedimenti penali relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002 che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell'udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado sono immediatamente sospesi per la durata di un anno.
Si è sempre discusso, come un mai sopito timore, della sottoposizione dell'ufficio del pubblico ministero all'esecutivo e, di contro, si è sempre escluso dal novero delle cose immaginabili una qualsiasi affievolimento dell'indipendenza e dell'autonomia della magistratura essendo abbastanza chiaro il dettato costituzionale (art. 104) secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, esecutivo berlusconiano compreso.
Il cavaliere, in un delirio di onnipotenza, ha saltato audacemente l'ostacolo degli odiati pm appropriandosi di alcune funzioni tipicamente giudiziarie quali quelle, appunto, della formazione dei ruoli di udienza e della decisione relativa ai processi da celebrare.
Ora è ben vero che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101) e che, quindi, dovranno rispettare anche questa sospendendo «immediatamente» anche il processo contro Berlusconi, ma è anche vero che si tratta di una legge ordinaria incostituzionale proprio per la violazione palese del citato art. 104, nonché dell'art. 112 che, prevedendo l'obbligatorietà dell'azione penale, ci dice come i processi non solo vadano obbligatoriamente iniziati, ma anche conclusi. Avrebbe firmato il decreto legge il presidente della Repubblica se gli fosse stato presentato in origine con questi due articoli?
Certo è che, come con altre sue leggi poi dichiarate incostituzionali, il cavaliere ritenta lo scherzo: la legge va applicata, poi qualcuno solleverà l'eccezione d'incostituzionalità che verrà discussa non in tempi breve e, comunque vada a finire, per ora viene ritardata l'emissione della sua sentenza.
Tempo fa il procuratore della Repubblica di Torino Maddalena con una circolare aveva tentato di non far celebrare processi prossimi alla prescrizione o con la prevedibile pena coperta dall'indulto. Tutti protestarono, centrodestra e Camere penali in testa: cosa diranno ora i contestatori di Maddalena? Si tratta di un notevole salto di qualità nella strategia della demolizione dello stato di diritto che questa maggioranza ha iniziato a realizzare: opposizione, se ci sei, svegliati.

 

Alcune riflessioni di un amministratore di sinistra sul taglio dell'ICI

di Stefano Cristiano *

su Liberazione del 10/06/2008

Un paio di giorni fa mi è arrivato a casa un bollettino… panico! Apro la busta con circospetta preoccupazione e… sorpresa non vedo numeri. Anzi al posto della cifra ci sono degli allegri asterischi… e’ la comunicazione che per quest’anno NON DOVRO’ PAGARE L’ICI!!!
Evviva, verrebbe da dire, risparmieremo 200€ l’anno! La mia famiglia potrà permettersi due pieni di gasolio in più, o addirittura due paia di scarpine NUOVE alle bambine. Quel pusillanime di Prodi aveva cancellato l’ICI, pensate un po’, solo ai possessori di redditi più bassi. Una roba da vecchio stalinista incallito. Ma Berlusconi ci libera tutti da questo iniquo balzello. Da oggi molti italiani potranno guardare al proprio futuro con rinnovata fiducia. E’ vero, i soliti disfattisti di sinistra continueranno a dire che l’inflazione reale sui beni di prima necessità aumenta ogni anno del 12-13%, strappando brandelli di carne dalle famiglie più fragili; ribadiranno stancamente che i nostri salari sono i più bassi d’Europa mentre i livelli di precarietà sono fra i più alti! Ma che importa, da oggi l’assessore di Pistoia, o il commercialista di Milano, non pagheranno più l’ICI sulla prima casa, e chi la casa non ce l’ha è bene che si attrezzi in fretta. Non solo! Il “Cavaliere” promette a noi amministratori locali, spreconi e scalda sedie, che quel taglio non avrà conseguenze per le risorse locali. Meraviglioso! Se non è il socialismo, poco ci manca! Tutto bene dunque? Neanche per sogno. Pensate che quei mafiosi e perdigiorno di siciliani non capiscono che, per finanziare questa operazione “progressiva”, bisogna tagliare gli “sprechi”. Ebbene quegli egoisti non si accontentano di veder realizzato il Ponte sullo Stretto di Messina, che permetterà di risparmiare qualche minuto di percorrenza alla modica cifra di 6 miliardi di €, ma pretendono, guarda un po’, di avere strade provinciali e trasporti locali più agevoli per chi lavora, studia o fa il pendolare. Veramente incredibile!
Poi però osserviamo con più attenzione i dettagli, e ci accorgiamo di un piccolo insignificante particolare, ovvero che per permettere ad un assessore di Pistoia o ad un commercialista di Milano di comprare due paia di scarpine nuove alle proprie bambine, si taglia quel piccolo e certamente insufficiente fondo destinato a tutelare e sostenere, attraverso i centri anti-violenza, quelle donne e quei bambini che hanno subito violenza o maltrattamenti fisici o psicologici. E qui allora non c’è da fare ironia, qui, a prescindere dal fatto che a seguito delle polemiche il fondo possa essere riattivato, traspaiono una filosofia ed una cultura agghiaccianti per il cinismo che esprimono. Il cinismo di chi usa l’intollerabile violenza su donne o bambini, per instillare la paura nei confronti di persone straniere. Il cinismo di chi nasconde che l’80% di quelle violenze avvengono in ambito familiare o nella cerchia degli amici. Il cinismo di chi cavalca quella violenza per giustificare una torsione securitaria ed autoritaria del nostro ordinamento civile e democratico, e poi, con la scusa di regalare qualche spicciolo alle famiglie, smantella l’idea del prelievo fiscale come strumento progressivo di redistribuzione perequativa delle risorse in termini di servizi, minando alla radice un altro pezzo di rete sociale. Qui non è in discussione solo il problema delle risorse, ma soprattutto il principio mutualistico e solidale su cui si regge una comunità. Ebbene io voglio continuare a pagare l’ICI, voglio continuare a sostenere quelle donne e quei bambini così fragili ed esposti, non voglio che il Governo mi faccia questo abuso. Dichiaro che farò obiezione fiscale, e spero che tutti coloro che ancora non sono stati travolti dal gorgo egoistico del piccolo interesse personale, ritrovino il bandolo di quella rete solidale così drammaticamente sfilacciata e compromessa. E se non dovesse farlo lo Stato, dobbiamo ricominciare a farlo noi! Cominciamo a ricostruire un nuovo tessuto mutualistico, usiamo una parte delle risorse del nostro Partito, di chi è impegnato nelle istituzioni e dei singoli o delle associazioni interessate al progetto, per finanziare casse di solidarietà e di sostegno ai lavoratori precari, alle donne e ai bambini abusati, agli anziani fragili. Solo ricostruendo un tessuto solidale possiamo cullare la speranza di rilanciare la sinistra.

* Assessore al Comune di Pistoia

 

 

Attenti, la scuola pubblica è in pericolo

 

 

 

 

 

 

La ministra Gelmini cerca di capire come funziona, Valentina Aprea presenta la sua "riforma"

 

Gennaro Loffredo*
L'anno scolastico è finito. Un sospiro di sollievo per tanti. Mentre i più piccoli si apprestano ad affollare centri estivi e case dei/delle nonni/e, ed è (in extremis) stata fatta un po' più di chiarezza sul recupero dei debiti per gli studenti delle superiori, e poco o nulla si sa delle prove suppletive, calate completamente dall'alto, che dovrebbero (il condizionale è doveroso poiché ciascuna scuola può decidere se farle valere o meno nel giudizio finale) sostenere gli allievi che si licenziano dalla scuola media, la ministra Gelmini sta cercando di capire come funziona la scuola in una full immersion con la sorella insegnante - non so come farà per università e ricerca.
Valentina Aprea intanto, che tutti pensavamo fosse la naturale sostituta della Moratti, gioca le sue carte e deposita alla Camera un ddl di 22 articoli dal titolo "Norme per l'autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti". In esso affronta tematiche che già conosciamo e che già, durante il precedente governo Berlusconi erano state parzialmente discusse senza mai però approdare in aula. Stavolta la Aprea, vuoi perché non coinvolta direttamente in ruoli di governo, vuoi perché l'unica del settore - si è vista scavalcata anche da Pizza a cui qualcosa bisognava pur dare per il ritiro del ricorso che avrebbe fatto slittare le elezioni dello scorso aprile - vuoi perché si avvicina l'estate (fisiologicamente calano interesse ed attenzione sia per la stanchezza di fine anno scolastico che per l'avvicinarsi delle vacanze) sembra voler procedere in gran fretta. Tant'è che il ddl è già stato assegnato alla competente Commissione Istruzione e Cultura della Camera dei Deputati, che lei presiede. E' una vera e propria rivoluzione dell'intero sistema pubblico di istruzione! In negativo ovviamente.
Mi rivolgo ai colleghi e alle colleghe, ai precari docenti ed Ata, agli studenti, ai genitori, ai sindacati, alle associazioni di categoria e a quanti a vari livelli si occupano di scuola. Alla stampa. La scuola pubblica è in pericolo. La società tutta è in pericolo poiché si mette in discussione un diritto fondamentale della nostra Costituzione: il diritto allo studio. Brunetta parla della scuola come se fosse una qualsiasi fabbrica, la Costituzione viene dilaniata con la promessa di Berlusconi al Papa di finanziare direttamente le scuole private paritarie per aumentare la competizione verso l'alto con quelle pubbliche che nel frattempo subiscono duri tagli agli organici. La Gelmini studia… Pizza…?... La Aprea fa tutto il resto. Riscrive lo stato giuridico dei docenti, ciascuna scuola bandisce i concorsi per assumere docenti ed Ata in conformazione al Pof (Piano dell'offerta formativa), spariscono le rappresentanze sindacali, vengono eliminati consigli di istituto e di circolo e trasformati in consigli di amministrazione. Al posto di ogni scuola una fondazione. La gestione? Delle Regioni, naturalmente. E quest'ultima cosa fa il paio con la debolezza con la quale è stato risolto l'affidamento del Miur alla Gelmini. Oserei dire quasi come il Turismo affidato alla Brambilla. Scuola, Università e Ricerca sono questioni delicate. Molti governi ci hanno lasciato le penne. Ma se il progetto è quello di affidare tutto alle Regioni il quesito è risolto. Anche la Gelmini, che avrà sicuramente alte competenze in altri campi, va bene. Solo la scuola riguarda circa 15milioni di persone. Ed è centrale nel prefigurare un nuovo modello di società.
Rimettiamo queste tematiche al centro del dibattito politico, non lasciamo che se ne occupino solo gli addetti ai lavori. Riguarda tutti e tutte; l'acquisizione di ogni seppur piccolo diritto di cittadinanza cresce nelle scuole, nelle aule, dove bambini e bambine di tutto il mondo ormai passano, si incontrano, crescono, maturano pensiero critico. E tutto ciò non avviene a caso. C'è il lavoro continuo, scrupoloso, competente, attento di una comunità educativa che della scuola ha sempre avuto cura. Nonostante i governi, nonostante la scarsità delle risorse, nonostante la denigrazione continua dei mezzi di comunicazione di massa che mettono l'accento sempre e solamente sui lati negativi. Bullismo dilagante, insegnanti fannulloni… mai, dico mai, ho avuto il piacere di vedere in un telegiornale o sulla prima pagina di un qualsiasi quotidiano, una notizia che esaltasse quanto di buono e di prezioso anonimi insegnati portano avanti con fatica. Già, quello è solo il nostro dovere.
Eppure la televisione in passato ha svolto un ruolo importante nell'alfabetizzazione della nostra società. Molti hanno imparato a leggere e scrivere grazie alle lezioni del maestro Manzi (1milione e mezzo conseguirono la licenza elementare) che contribuì notevolmente all'unificazione culturale della nazione attraverso l'insegnamento della lingua italiana. E' prima di "Non è mai troppo tardi", nel 1958, "Telescuola", con 4milioni di telespettatori al giorno, che con il maestro Accatino innovò la didattica dell'Educazione Artistica, promuovendo la docenza della storia dell'arte e dell'educazione all'immagine nella scuola dell'obbligo. Oggi per vedere un programma un po' più intelligente bisogna aspettare le tre di notte.
*maestro elementare


Liberazione 12/06/2008

Tav, Tajani conferma: per l'Ue la Torino-Lione è ancora in forse

 

Vittorio Agnoletto*
Tutte le istituzioni italiane danno ormai per certa la costruzione dell'alta velocità sulla Torino/Lione con il super tunnel ma il commissario europeo ai Trasporti Antonio Tajani, durante l'audizione di ieri sera (16 giugno, ndr) alla Commissione Trasporti del Parlamento Europeo ha dovuto ammettere che la situazione è ben diversa.
Ho chiesto al Commissario: «Fino ad ora la Commissione Europea non ha ottenuto le informazioni richieste all'Italia né sul totale delle conseguenze finanziarie, né sul tracciato definitivo del percorso. L'Italia ha fornito soltanto le informazioni parziali, nel tentativo di ottenere il finanziamento dalla Commissione. Il costo complessivo del progetto, dal 2004 ad oggi, (come da documentazione distribuita dal Parlamento) è aumentato del 38,2%, da 38 milioni a oltre 52 milioni di euro, e sul versante italiano il costo/km supera in media di oltre tre volte il costo/km previsto in Francia e in Spagna. Inoltre proprio in questi giorni la Ltf (che ha in appalto il progetto) ha presentato un nuovo progetto. Quali garanzie potrà avere l'Ue dall'Italia sull'effettiva disponibilità dei fondi necessari? Come può accettare l'Ue di finanziare, anche se molto parzialmente, la tratta italiana della Torino/Lione, quando ad oggi il governo italiano non ha ancora presentato un progetto definitivo alla Commissione Europea?»
Tajani ha confermato che a tutt'oggi non esiste un progetto definitivo, ha dichiarato di aver avvisato il ministro Matteoli che «qualora non venissero presentati tempestivamente i progetti, i finanziamenti Ue verrebbero destinati ad altri» e si è limitato ad aggiungere che è in attesa che dall'Italia arrivi la Via (Valutazione d'impatto ambientale.) Non una parola sul comportamento della Commissione davanti all'assenza di garanzie finanziarie da parte dell'Italia.
In sintesi, pur tra reticenze e appelli al governo italiano ad accelerare i tempi, il commissario ha dovuto ammettere che ad oggi in Europa vi sono ancora molte incertezze sulla reale possibilità che sia realizzata l'Alta Velocità in Val Susa.
Tajani è di fronte ad un evidente conflitto di fedeltà tra le regole europee e i ritardi e le carenze del governo italiano.
Conflitto manifestatosi esplicitamente quando gli ho ricordato che l'Ue ha avviato una procedura d'infrazione contro l'Italia per l'assenza della Via sui 534 progetti approvati dal precedente governo Berlusconi, con il primo programma italiano strategico delle infrastrutture, nel dicembre 2001.
Invece di impegnarsi a chiedere al governo italiano il rispetto delle direttive comunitarie ha risposto che la Commissione, anziché avviare procedure d'infrazione, dovrebbe aiutare l'Italia a trovare soluzioni. L'unica soluzione dovrebbe essere il rispetto delle regole europee. Ma questo Tajani si è guardato bene dal dirlo!
*eurodeputato di Rifondazione comunista/Sinistra europea


18/06/2008

La Robin Tax? Per essere efficace si deve puntare sulle royalties

 

La tassa è più fumo negli occhi che uno strumento utile a risanare i conti

Sabina Morandi
C'era una volta Enrico Mattei che conquistò la fiducia dei paesi produttori denunciando lo sfruttamento delle Sette sorelle. Quel 15% di royalties (i diritti che si pagano sulle licenze di estrazione) che vi danno i giganti del petrolio - disse ai produttori - è un insulto. E per dimostrare che i suoi strali contro le «reminescenze imperialistiche e colonialistiche» della politica energetica, come scrisse nel '58, non erano soltanto parole, mise sul piatto ben altre percentuali e, soprattutto, un modo diverso di fare affari tanto che oggi le compagnie non riescono a imporre contratti di quel genere nemmeno in Iraq. In Venezuela, Equador e Bolivia si ridiscutono i contratti per portarli oltre la vetta del 50%: le compagnie - anche l'Eni di Mattei - piangono, minacciano ma alla fine firmano perché i margini di guadagno restano altissimi e tali resteranno, visto il progressivo esaurimento di una risorsa non rinnovabile per definizione. La cosa strana è che per sfruttare i giacimenti italiani, poca cosa se paragonati a quelli venezuelani o iracheni ma fra i primi in Europa, alle compagnie sia consentito quello che non possono pretendere nemmeno a Baghdad, di pagare cioè un miserissimo 7% allo Stato, fra altro azionista di una delle compagnie in questione, l'Eni del succitato Mattei.
L'inganno della Robin Hood tax sta tutto qui, e chi non propone di mettere mano alle royalties sulle licenze d'estrazione, sta semplicemente facendo un po' di scena. A sostenere la necessità di questa misura è Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi intervistato da Elena Comelli su CorriereEconomia : «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di profit sharing sulle rendite petrolifere. Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Del resto un progetto di questo genere era già stato formulato alla fine del 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell'Industria e del Tesoro, quando il primo governo Berlusconi si era trovato di fronte a una prima impennata delle quotazioni del greggio, passate in poco tempo da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu infatti proprio quello di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Poi cambiò il governo e non se ne fece niente.
Oggi, con i nuovi aumenti da record, l'applicazione di quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l'anno sull'estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli - ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall'Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Insomma, una maggiorazione straordinaria dell'imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l'Eni, con il rischio di far crollare il titolo, e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro che si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista.
Del resto è risaputo che la maggior parte dei profitti le compagnie petrolifere li ricavano su quello che si chiama l'upstream - ovvero l'esplorazione e la produzione - e molto meno dal downstream - ovvero la raffinazione e la distribuzione. Nel primo caso, con il petrolio estratto a 5-10 dollari al barile e poi rivenduto a 140 sui mercati internazionali, il profitto è enorme. Nel secondo caso invece stiamo parlando di un'attività industriale come un'altra, con margini piuttosto risicati. Colpire la raffinazione equivale ad aumentare le tasse sui carburanti, già molto alte, e certo non darebbe alcun sollievo ai consumatori. Solo aumentando le royalties sulle licenze d'estrazione - e ovviamente non consentendo alle compagnie di rifarsi sui consumatori - si può davvero cominciare a ridistribuire gli enormi introiti del settore petrolifero come stanno facendo in America Latina. Ma per imboccare questa strada c'è una condizione obbligata: risolvere il paradosso del controllore-controllato, cioè di uno Stato che è anche azionista, attraverso appunto il ministero del Tesoro. Come azionista di maggioranza lo Stato guadagna dall'impennata del greggio esattamente come, per esempio, guadagna quando la sua compagnia risparmia sull'efficienza energetica e tarda a rammodernare le proprie decrepite raffinerie. Come gestore dei soldi dei contribuenti, però, lo Stato sarà poi costretto a pagare le salatissime multe comminate da Bruxelles per non avere rispettato gli impegni di Kyoto, visto che le vecchie raffinerie inquinano parecchio. Insomma, che la (mano) destra cominci a interessarsi a cosa fa la sinistra, altrimenti è solo teatro populista.

18/06/2008

 

Veltroni: fine del dialogoIl piddì si accontenterà?

Venerdì l'assemblea dei democratici. Casini: «Inutile il governo-ombra»

Stefano Bocconetti
Gli aveva dato «una settimana». Per ripensarci, per tornare al clima idilliaco, respirato durante la campagna elettorale. Invece, è stato costretto ad accorciare i tempi. E così, mentre Berlusconi imponeva al Senato la discussione sulle norme che cancellano i suoi guai con la giustizia, Veltroni s'è fatto intervistare dal Tg3. Per dire che «no, così non si fa», per dire che il dialogo va in soffitta. Colpa del premier «che ha stracciato la tela», colpa di Berlusconi e dei suoi continui strappi. Lui, beninteso, non è affatto pentito di averci provato. Ma la destra ha scelto di nuovo la strada delle «leggi ad personam» e così la via della collaborazione è diventata impraticabile. Svolta? In realtà chi conosce le cose di casa piddì dice che l'uscita di Veltroni ha poco a che fare con le scelte del governo. Molto, molto di più dipende dalle vicende interne del suo partito. Sempre ieri, infatti, D'Alema aveva riunito - in un convegno rigidamente a porte chiuse - la sua fondazione, ItalianiEuropei . Un seminario aperto al contributo di molti interventi esterni, da Casini a Cesare Salvi, fino a Rodotà e Vassalli. invitato anche il segretario Veltroni che però non s'è presentato. Cosa è uscito dal seminario? Il tema in discussione era quello delle riforme. E su questo, sembra che il gruppo di esperti si sia ritrovato d'accordo: ci vuole subito una riforma elettorale. Sul modello tedesco, con una soglia di sbarramento al 5%. Questo per le elezioni del Parlamento italiano. Diversa, ben diversa è la situazione per le europee: qui, un po' tutti, si sono detti contrari ad una soglia come quella prospettata da Berlusconi, sempre al 5%. Ma anche il 3% che invece piace a Veltroni fa discutere: tutti dicono che quella soglia non dovrebbe essere modificata surrettiziamente, riducendo le circoscrizioni elettorali.
Fin qu, le proposte. Ma di più forse - alla vigilia della prima riunione della «costituente» del piddì, in programma venerdì e sabato a Roma - contano i commenti fatti a margine del seminario. C'è quello - rilevante forse dal punto di vista simbolico - di Casini, che di fatto ha scavalcato «a sinistra» il piddì. Il leader dell'Udc ha sostenuto, infatti, che «l'opposizione non si fa col governo-ombra». Così, si favorisce solo la «maggioranza». Contano i commenti, si diceva. E ovviamente, primo fra tutti, quello di D'Alema. Che anche ieri - come impone il cliché - ha mostrato fastidio per quei giornalisti che avevano presentato l'iniziativa della fondazione come l'atto di nascita della sua componente, ma poi è andato giù duro. Ha detto, quasi scandendo le parole, che comunque le riforme si fanno in Parlamento. Tema, quindi, che non può più essere appannaggio dei colloqui privati di due leader: Veltroni e Berlusconi. Di più: ha aggiunto che in ogni caso la parola sulle riforme deve tornare ai partiti. Fino ad ora troppo silenti. Fino ad ora costretti a vivere solo in funzione del capo, come nel «suo» partito.
Tutto, insomma, faceva capire - appena ieri mattina - che l'assemblea del piddì di questo week end sarebbe stata vera. Forse addirittura al punto da mettere in discussione la leadership di Veltroni. Magari non il suo ruolo di segretario ma sicuramente il modo di dirigere il partito, il modo con cui si arriva alle decisioni. Il modo di fare opposizione. Tanto che sempre ieri mattina, D'Alema a chi gli chiedeva se il «governo-ombra» fosse efficace, ha risposto: «E' solo uno strumento. Ma oggi è più importante discutere dei contenuti».
In questa situazione Veltroni ha provato a giocare d'anticipo. Ha rotto il clima idilliaco con la maggioranza. O meglio: ha annunciato la rottura sui temi della giustizia. Perché neanche ieri, davanti alle telecamere, è uscita una sola parola del segretario sulle misure contro i migranti, sulla riforma dei contratti. Sulle politiche sociali. Ha giocato d'anticipo, tanto che il suo staff ieri spiegava che «se aveva un senso una discussione sul tipo di opposizione davanti ad un Berlusconi dialogante, ora ci ha pensato il premier a rendere tutto più facile». Tanto che ora c'è il numero due del partito, Franceschini, che si sente autorizzato a dire che «non è in discussione la leadership, nè tantomeno un congresso anticipato».
Berlusconi, insomma, sarebbe riuscito laddove fino ad ora non c'era riuscito nessuno: a mettere d'accordo le anime dei democratici. Ma a detta di tutti gli osservatori, questa è davvero solo un'immagine di facciata. Perché ormai tanti nel piddì chiedono non solo qualche aggettivo in più nelle dichiarazioni televisive - in fondo è esattamente questa la richiesta di Di Pietro - ma chiedono di discutere sulle ragioni della sconfitta, delle sconfitte. Ultima quella disastrosa in Sicilia. Chiedono di discutere quali debbano diventare i referenti sociali dell'opposizione. Ed è bastato sollevare questi temi, accennare ad una discussione su questi argomenti perchè Veltroni perdesse il controllo del partito. E venerdì forse, finalmente, quella discussione comincerà.


18/06/2008

 

 

 

ropaganda nucleare e sicurezza nei cantieri

di Marco Bazzoni *

su Liberazione del 08/06/2008

Caro direttore, oggi navigando su internet, mi è capitato di imbattermi in un articolo sul sito del "Foglio", dal titolo "Sembra un paradosso, ma il nucleare è più sicuro dei cantieri italiani", scritto da Carlo Stagnaro… Per me è una cosa inconcepibile, che si arrivi a fare (anche solo a pensare) un paragone del genere. L'articolo si conclude dicendo (i dati Inail sugli infortuni sul lavoro nel 2007 sono provvisori): «In tutto, in media, in sessant'anni di storia nucleare, in tutto il mondo, il numero di vittime è stato pari a 0,23 all'anno, al netto di Chernobyl. Per dare un termine di paragone, in Italia nel 2007 gli infortuni sul lavoro sono stati 913.500, con 1.260 vittime». Si vorrebbe far passare l'idea che il nucleare è più sicuro dei nostri cantieri, quindi se più è sicuro è un'energia che dovremo utilizzare. Vorrei ricordare, in molti sembrano averlo dimenticato, che con il referendum abrogativo dell'8 novembre 1987 gli italiani risposero in massa Sì (circa 80%) per l'abbandono del ricorso all'energia nucleare. Ecco perché, ancora oggi, occorre rispondere con fermezza a chi solo pensa di ricorrere nuovamente a questa forma di energia: no al nucleare, sì a più sicurezza nei luoghi di lavoro.

* rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

 

 

«Chiaiano non è idonea per una discarica, Il resto sono frottole»,

 

Franco Ortolani geologo alla Federico II esperto dei comitati
 

Checchino Antonini

Dati nuovi, sul sito di Chiaiano, «non ce ne sono». La lava c'è. Ma è uscita dai carotaggi solo il giorno successivo alla «premonizione» di Repubblica . E nemmeno così, però, sarebbe una garanzia dell'impermeabilità del sottosuolo della cava scelta da Bertolaso e Berlusconi per 700mila tonnellate di rifiuti. «Deve essere ben chiaro a tutti i cittadini che fino ad oggi non si è reso disponibile nessun nuovo dato che indichi la idoneità», avverte Franco Ortolani, ordinario di Geologia alla Federico II di Napoli, uscendo, in serata, dall'ennesimo vertice del tavolo tecnico nella sede del commissario di governo.
Per due giorni un noto quotidiano nazionale ha battuto sulla presunta idoneità della cava della Selva di Chiaiano, e Ortolani, esperto designato dai comitati di cittadini di Marano e Chiaiano, ripete che i carotaggi sono ancora in corso e che «non sappiamo altro tranne la stratigrafia del sottosuolo, grazie alla perforazione che deve raggiungere la falda idrica, non ancora rinvenuta ad oltre 120 metri di profondità dal piano di campagna (i dati bibliografici la danno a meno 150) che, a sua volta, si trova a 15 metri sopra al fondo della cava. I cittadini devono sapere che le rocce presenti nel sottosuolo sono caratterizzate da una notevole permeabilità, per porosità e fratturazione, evidenziata anche dal loro comportamento durante le copiose precipitazioni piovose del 6 e 7 giugno: benché siano caduti circa 100 millimetri di acqua piovana (in un anno ne precipitano mediamente circa 800) le rocce costituenti il fondo della cava del poligono hanno assorbito agevolmente l'acqua smaltendola rapidamente verso la sottostante falda. E' assolutamente falsa, quindi, l'affermazione che nel sottosuolo vi siano rocce impermeabili. Sotto terra ci sono tufi e sedimenti vulcanici sciolti, tutti permeabili, che lasciano passare velocemente l'acqua».

Però Repubblica non esita a titolare sull'«Ok alla discarica», accreditando un imminente annuncio di De Gennaro. Dopo l'annuncio «Chiaiano è idonea» di Berlusconi, della fine di maggio, dunque, eccone un altro, su cui lo stesso Bertolaso sarebbe molto scettico: «Ripuliremo Napoli dai rifiuti entro la fine di luglio». Secondo lei perché accade questa fuga di notizie false?
E lo chiede a me? È talmente grave e serio il problema che mi sembra molto strano che un giornale serio come La Repubblica si presti a diffondere notizie false su un argomento di questo tipo. Perché l'abbia fatto non lo so, chiaramente non rasserena l'ambiente e gli animi.

Crede che esista un partito trasversale della discarica?
Lo chiami come vuole. Noi, comunque, stiamo per accertare la realtà fisica in base a scienza, tecnica, buon senso e legge. Che, in un paese civile, si dovrebbe fare prima di indicare un sito con un decreto legge. Non si va in sala operatoria prima di fare tutte le analisi!

Si parla di questa campagna di stampa nel comitato dei tecnici? Qual'è il clima del confronto tra voi?
Non si riesce a capire. Il clima? tra noi è buono, tanto non conta niente.

Lei crede che la decisione sia stata già presa?
E lei pensa che si smentirà chi ha scritto quel decreto senza istruttoria tecnica?

Sono emerse novità dal tavolo appena concluso?
Abbiamo visto i nuovi dati che confermano quello che già sapevamo: nessuna novità degna di questo nome. Ma vanno evidenziate non solo le problematiche geologiche...

Infatti, non è solo un problema geologico ma anche urbanistico.
Siamo in un parco naturale e non si rispetta la tutela dell'ambiente. E' un'area in mezzo a 150mila abitanti, densamente abitata. Ci sarà un problema per i compattatori, 100-150 al giorno, che dovrebbero affluire di notte per non interferire sul traffico...

Professore, ma esistono alternative?
Dopo 14 anni di commissariato, da uno studio dell'Università, è emerso che, con questi livelli di differenziata e riciclaggio, la Campania produce ogni mese tanta immondizia da riempire uno stadio come il San Paolo. Ogni anno servono 12 stadi. Invece c'è solo Macchia Soprana, che sta per chiudere, e presto apriranno Savignano Irpino e S.Arcangelo che dureranno per pochi mesi. C'è una non volontà, una situazione che vede la Campania sempre nello stesso disagio, si verificano incendi, impianti che si rompono. Tutti eventi ciclici che prefigurano uno stato di grande pericolo e che servono a perpetuare l'emergenza, i poteri speciali che consentono di usare soldi pubblici in deroga alle leggi che regolano la spesa pubblica.
Siamo stati ricattati per anni con questa pressione. Non è solo responsabilità del commissario che è nominato dal governo. Dunque, non si può dire che lo Stato non c'era. E la Regione ha abdicato al compito di difendere l'aria il suolo e l'acqua.

Intanto il governo ha deciso di militarizzare i territori...
Già un anno e mezzo fa, in questa situazione di scarsa credibilità delle istituzioni, proposi di realizzare una grande discarica moderna, con tecniche che non consentani percolato, su una grande area militare nel salernitano, a Persano, dove si fanno solo prove di tiro. Ma è un'area a valle dell'Oasi non sopra dove Bertolaso ha fatto due discariche mettendo a rischio
l'acqua della Piana del Sele, l'economia e la vita di 60 mila famiglie. Oggi si militarizzano le aree ma ce n'è già una militarizzata.


Liberazione 11/06/2008

 

Giustizia di casta: carcere e impunità


carcere.jpg di Giuseppe Di Lello*


 

Il Cavaliere è quello che conosciamo e, quindi, è possibile che domani possa ridimensionare l’annuncio shock sulla abolizione delle intercettazioni dicendo di essere stato frainteso: fino a quel momento, però, dobbiamo attenerci alle sue parole e valutarne le implicazioni. Divieto assoluto delle intercettazioni dunque, con la benevola esclusione di quelle che riguardano il terrorismo e la criminalità organizzata. Per ciò che riguarda le mafie è abbastanza chiaro che l’esclusione non potrà riguardare tutti quei reati ormai logicamente e legislativamente connessi a questa forma di criminalità, quali il sequestro di persona, il traffico di stupefacenti o la tratta di persone e simili: il Cavaliere non lo avrà detto per brevità, ma non gli si può fare carico di aver esagerato addossandogli una tale ignoranza in materia. Per il resto bisogna dire che la radicale esclusione di tutte le intercettazioni per gli altri reati è abbastanza in linea con la “cultura” della tolleranza zero esercitata con il pugno di ferro per i poveracci e il guanto di velluto per tutti gli altri che tali non sono. Lo stesso dicasi dei cinque anni di reclusione promessi per chi le dispone, le esegue o le pubblica: in questa fase storica del decisionismo il carcere è ormai la sanzione applicabile a chiunque voglia opporsi alle scellerate scelte del governo, dai clandestini ai difensori dell’ambiente o della salute (rifiuti o nucleare) o non voglia la militarizzazione del territorio o le grandi opere (tipo Tav, ponte sullo stretto) ed altro ancora.

Certo il salto di qualità è impressionante, dato che fino a ieri si parlava solo di una restrizione dei tempi e dei modi della pubblicazione delle intercettazioni ma non di abolirle completamente. Se dovesse passare la linea del Cavaliere, si otterrebbe una abolizione di moltissimi reati e Calderoli avrebbe già attuato gran parte del suo programma semplificatorio.

Resta da capire come reagiranno gli alleati nazional-alleati o leghisti, duri e puri nemici del crimine, ma forse si allineeranno dato che anch’essi si ritrovano bene dentro quella cultura dei due pesi e due misure.

Intendiamoci, ci sono altri Paesi (l’Inghilterra per esempio) che con le intercettazioni sono molto cauti e non per questo il loro sistema giudiziario è meno garantista. Lì, però, a uno che è stato prosciolto per prescrizione dalla corruzione della Guardia di Finanza o non vuole adeguarsi alle sentenze della Corte di giustizia europea – tanto per dirne due – non gli farebbero fare il presidente del consiglio: è una vincolo per la tenuta del loro sistema democratico e non è una questione di poco conto. In tale caso il bilanciamento tra la difficoltà di accertare i reati e la responsabilità politica non è a saldo zero.

Non c’è dubbio che si debbano porre dei limiti alle intercettazioni e alla loro pubblicazione e che la privacy delle persone – specie se imputati - andrebbe maggiormente tutelata, ma abolirle completamente varrebbe a mettere in braghe di tela la magistratura e, in particolare, a vanificare il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. E già, perché senza le intercettazioni il tasso di impunità andrebbe alle stelle e la stessa lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata incontrerebbe nuovi e impensati ostacoli: troppo spesso partendo proprio dai reati minori ci si imbatte in quelli più grandi, tipici delle grandi organizzazioni criminali.

Il Cavaliere decisionista
ha tagliato con un colpo di spada il nodo gordiano assicurando pace e tranquillità ad una consistente parte del suo elettorato : non a caso la platea confindustriale ha lungamente applaudito il grande annuncio.

Colpire i reati minori e lasciare da parte i grandi crimini è stato da ormai troppi anni il messaggio della destra berlusconiana e ne ha costituito senza dubbio un tassello della vittoria elettorale: chiarezza è fatta, se mai ce ne fosse stato bisogno.
 
*Giuseppe Di Lello è stato giudice presso il Tribunale di Palermo, facendo parte, insieme a Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta, del pool antimafia creato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto.

Nella XI e XIII legislatura è stato consulente della Commissione parlamentare antimafia. Nella XII legislatura è stato parlamentare eletto nelle liste dei Progressisti nel collegio di Lanciano (Ch).
E' stato senatore del prc nell'ultima (XV) legislatura. Scheda informativa delle attività 
 

Ha scritto il libro "Giudici", Sellerio editore, Palermo 1994 e il saggio "La vicenda di Salvatore Giuliano", in Storia d'Italia, Annali 12, Torino, Giulio Einaudi editore, 1997.


da 'il manifesto', 8 giugno 2008

Rifiuti, un decreto contro la differenziata

di Alberto Lucarelli *

su Il Manifesto del 05/06/2008

Trovo minaccioso e preoccupante il decreto-legge n. 90 del 23 maggio 2008 sulle misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza smaltimento rifiuti in Campania.
In via preliminare va detto che l'intero impianto normativo si basa sul presupposto che stati di necessità e situazioni di fatto, quali la gravità del contesto socio-economico-ambientale, i rischi di natura igienico-sanitaria e il mantenimento dell'ordine pubblico, diventino a tutti gli effetti fonte del diritto. Dunque, il ricorso non a eventi imprevedibili ma allo stato di necessità, cioè a una categoria meta-giuridica, mina alla radice la legittimità del decreto-legge e degli atti che sulla base di esso verranno adottati - in violazione del principio di legalità - facendo risorgere, dopo il disarmo delle istituzioni pubbliche, un diritto pubblico autoritario, minaccioso e violento che intende attribuire allo stato, nella sua dimensione politico-amministrativa, solo la funzione di paladino della sicurezza, irresponsabile nei confronti dei conflitti sociali. Ciò azzera i traguardi dello stato democratico, regredendolo a stato di polizia della fine dell'800. Uno stato debole e inefficiente sul versante socio-economico, ma capace di «tirar fuori i muscoli» nel regolare il mitico rapporto autorità-libertà.
Alcune riflessioni : 1. Il ricorso agli impianti di temodistruzione, in contrasto con la normativa comunitaria e quella interna, assume valenza prioritaria e escludente nel ciclo integrato dei rifiuti. Le altre fasi, quelle che si incentrano sulla politica delle «r» (recupero, riciclaggio, riuso, riutilizzo, riparazione) sono marginalizzate, tanto da poter compromettere le future strategie gestionali. Infatti, la deriva impiantistica (previsione di 4 inceneritori) può pregiudicare anche nel futuro la raccolta differenziata. Il decreto, dunque, assume una valenza non solo legata al contingente ma in grado di compromettere scelte future.
2. Il regime delle competenze, in contrasto con quanto affermato dalla Costituzione, continua a essere violato e calpestate in particolare le competenze della regione. Ciò determina una continua «fuga» dal ritorno al regime ordinario.
3. La militarizzazione di parti del territorio a presidio degli impianti di termodistruzione e dei siti indicati come discariche si pone in evidente contrasto con principi e valori costituzionalmente garantiti quali la libertà di circolazione.
4. La costituzione di aree di interesse strategico nazionale è in contrasto con il principio della trasparenza e viola il diritto di informazione e il collegato diritto di critica, così come tutelati dall'art. 21 della Costituzione. Diritti che sono il presupposto a una partecipazione dei cittadini, matura e consapevole.
5. Sono introdotte regole e sanzioni penali molto dure che di fatto negano il diritto di riunione, così come tutelato dall'art. 17 della Costituzione, e in senso più ampio le istanze partecipative.
6. Le norme sulla competenza dell'autorità giudiziaria nei procedimenti penali relativi alla gestione dei rifiuti nella Campania introducono di fatto nel nostro ordinamento, giudici regionalizzati, con funzioni straordinarie, in contrasto con il principio dell'unità della giurisdizione e del divieto di istituire giudici straordinari o speciali (art. 102 Cost.).
7. Le norme che consentono al termovalorizzatore di Acerra di «bruciare» qualsiasi tipo di rifiuto sono immotivate e illegittime e in contrasto con quanto più volte affermato dalla magistratura e dalle commissioni bicamerali di inchiesta. Anche tali norme pregiudicano politiche per la raccolta differenziata.
8. Si autorizza in modo autoritativo e immotivato l'esercizio del termovalorizzatore di Acerra, in deroga al parere della commissione di valutazione di impatto ambientale, come previsto dal decreto legislativo n. 59 del 18 febbraio 2005.
9. Con la previsione di 4 termovalorizzatori, il ciclo integrato dei rifiuti, in contrasto con la normativa comunitaria e con il diritto interno, si poggerebbe sulla fase dello smaltimento, scoraggiando la raccolta differenziata e vanificando i meccanismi virtuosi, ambientali e economici, a essa riconducibili. La deriva «impiantistica» è perniciosa al punto da pregiudicare il futuro esercizio ordinario di competenze della regione.
10. Le norme sull'informazione e partecipazione dei cittadini sono illegittime e insoddisfacenti poiché difformi dalla Convenzione di Arhus.
E' evidente che con l'entrata in vigore del decreto legge il rischio è quello di annullare quel processo di democratizzazione che, attraverso un ruolo attivo del diritto pubblico, aveva contrassegnato il passaggio dallo stato di polizia allo stato democratico-sociale. Il diritto pubblico e quello amministrativo contenuti nel decreto-legge assumono una veste penalistica e sanzionatoria e non di regolazione dei conflitti sociali e di soluzione delle questioni ambientali e sanitarie.
Il diritto pubblico nel decreto in oggetto abdica al suo ruolo indispensabile: quello di tracciare le piste dei processi economici e regolare i conflitti sociali.
Il timore è che dopo il disarmo del diritto pubblico e la neo-feudalizzazione degli spazi giuridici, sia cominciato il percorso inverso, un déjà vu autoritario e incostituzionale, una vandalizzazione dei principi costituzionali. Il ritorno dell'uomo forte che recita, anche attraverso i simboli, il ruolo del decisionista è un richiamo infantile e pericoloso. Mi auguro tuttavia, che oggi, seppur tra tante ambiguità e ipocrisie, questo processo di vandalizzazione dello stato democratico, che dimostra tutte le sue debolezze, possa trovare ostacoli da parte del diritto internazionale e dal nascente «diritto pubblico europeo» e che il decreto legge venga ritirato o modificato radicalmente in sede di conversione. Mi auguro che tale atto, per verificarne la sua illegittimità, lo si raffronti alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e alla Carta europea dei diritti fondamentali. Mi auguro che la Campania sia in grado di «far sentire la sua voce» a difesa e in rappresentanza dei cittadini, impugnando dinanzi alla Corte costituzionale il decreto legge per violazione del principio costituzionale del regime delle competenze.

* Ordinario di diritto pubblico università di Napoli Federico II

 

«Agrocarburanti, un disastro su cui Usa e Ue speculano»

di Stefano Liberti

su Il Manifesto del 05/06/2008

Secondo l'ex relatore Onu per il cibo Jean Ziegler, il «biofuel» è un crimine contro l'umanità. Il suo successore De Schutter è anche più cattivo

Nominato nel marzo scorso relatore speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione, il belga Olivier de Schutter si è trovato immediatamente alle prese con una crisi di dimensioni planetarie. Succeduto allo svizzero Jean Ziegler, che aveva definito la produzione di agro-combustibili «un crimine contro l'umanità» e aveva richiesto una moratoria di cinque anni sulla produzione di etanolo e bio-diesel, questo giovane professore universitario non appare meno tenero nei confronti del cosiddetto «oro verde».
Qual è l'impatto reale degli agro-carburanti sulla crisi alimentare?
Esistono diversi tipi di agro-carburanti. Al di là della distinzione classica tra i cosiddetti agro-carburanti di prima e seconda generazione, bisogna anche evidenziare le differenze tra i vari agro-carburanti di prima generazione: c'è l'etanolo tratto dalla canna da zucchero in Brasile, quello tratto dal mais negli Stati uniti, l'olio estratto dalla colza in Europa e il bio-diesel tratto dall'olio da palma prodotto prevalentemente nel sud-est asiatico. Questi agro-carburanti hanno un diverso impatto ambientale e presentano un diverso grado di competizione con la produzione alimentare. L'etanolo brasiliano, per esempio, ha un miglior rapporto energetico degli altri ed è decisamente meno nocivo per l'ambiente. Detto questo, la cosa che trovo più preoccupante è il fatto che gli Usa e la Ue abbiano annunciato obiettivi precisi per l'aumento dell'utilizzo degli agro-carburanti nei prossimi anni, soprattutto nel settore dei trasporti. Questi annunci hanno conseguenze disastrose: alimentano la speculazione finanziaria. Mandano agli investitori il segnale chiaro che i prezzi delle terre e delle materie prime agricole continueranno a salire. Io faccio un appello urgente sia alla ue che agli Usa affinché rinuncino a questi obiettivi-soglia.
Oltre agli obiettivi-soglia esiste anche il problema delle sovvenzioni pubbliche che gli Stati uniti assicurano ai produttori di etanolo...
Sono varie le motivazioni che avanzano gli Stati uniti per sviluppare l'etanolo tratto dal mais. La prima, di ragione ambientale, è puramente pretestuosa, perché il bilancio ambientale della produzione di etanolo dal mais è negativo, ossia la produzione di questo tipo di etanolo consuma più energia di quanta ne generi. C'è poi una ragione di carattere geo-politico, perché Washington non vuole dipendere dagli idrocarburi fossili provenienti dal Medioriente. Infine, cosa non meno importante, c'è l'esigenza di ricompensare una lobby agricola - quella del Midwest - che è molto forte. Ogni anno negli Stati uniti 11 milioni di dollari di sovvenzioni pubbliche sono destinati alla produzione di etanolo.
Quello dell'etanolo nel Midwest americano è solo un caso esemplare. Non crede che in generale le sovvenzioni che i paesi del Nord garantiscono ai loro agricoltori siano una delle ragioni che hanno messo a rischio la sovranità alimentare nel Sud del mondo?
Le cifre sono effettivamente impressionanti: ogni anno i paesi del cosiddetto Nord del mondo destinano 320 miliardi di dollari in sovvenzioni alle loro produzioni agricole. Queste sovvenzioni hanno portato al fallimento di migliaia di agricoltori del Sud, soprattutto nell'Africa sub-sahariana, che non hanno accesso a simili aiuti pubblici. Nel corso di questa conferenza alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto potenze agricole emergenti come il Brasile o l'Argentina, hanno ribadito queste accuse e chiesto che il problema venga affrontato. C'è una pressione molto forte sugli Stati uniti, l'Unione europea e il Giappone perché facciano concessioni in questo senso nel corso dei negoziati commerciali di Doha nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Io credo che questo summit della Fao sia una tappa importante per una effettiva realizzazione del ciclo di sviluppo di Doha, anche se a questo proposito alcune ong hanno avanzato preoccupazioni rispetto a quella che definiscono una liberalizzazione ancora più spinta del commercio agricolo.
Non ritiene in effetti che una liberalizzazione maggiore del commercio agricolo, voluta tanto dalla Wto quanto dalla Fao, possa favorire le grandi multinazionali dell'agro-business?
Esiste questo rischio. Come esiste il rischio che una maggiore liberalizzazione del commercio agricolo possa spingere ancora di più verso monocolture destinate all'esportazione, a detrimento non solo della biodiversità ma anche dei piccoli produttori. È per questo che una delle prime iniziative che ho preso da quanto sono entrato in carica come relatore speciale è stata contattare la Wto per fare una missione presso di loro e cercare di valutare in modo imparziale e obiettivo l'impatto sul diritto dell'alimentazione del ciclo di sviluppo di Doha.

 

 

Agenzie interinali boom: raddoppiate in 10 anni

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 04/06/2008

Le società passate da 33 a 81, con 2700 filiali. Accordo con i sindacati: addetti stabilizzati dopo 36 o 42 mesi di missioni

In dieci anni le agenzie di lavoro interinale hanno registrato un vero e proprio boom: le società autorizzate a «somministrare» il lavoro sono passate infatti dalle 33 del 1998 (primo anno successivo al «Pacchetto Treu») alle 81 del 2007: l'aumento è del 145%. Le filiali distribuite sul territorio sono poco meno di 2700, hanno 9.500 dipendenti diretti e producono un fatturato di 6,5 miliardi annui. I dati vengono dal secondo rapporto annuale presentato da Ebitemp (l'ente bilaterale per il lavoro temporaneo) e Formatemp (il relativo Fondo per la formazione dei lavoratori). Il settore ha una copertura concentrata soprattutto nel nord del Paese, dove sono presenti il 67% delle filiali.
I lavoratori mandati in «missione» (con questo termine si indica il singolo contratto temporaneo, che può essere anche di un solo giorno) sono circa 600 mila in Italia - le cifre in questo caso vengono dal sindacato - ma tutti i numeri sembrano destinati a crescere se è vero che almeno il 95% dei dirigenti d'azienda intervistati nel rapporto si aspetta un aumento di domanda di questo tipo di lavoro. I fatturati medi delle agenzie interinali sono lievitati anch'essi: da 18 milioni nel 1999 a 67 milioni nel 2006, mentre diversi operatori si dicono intenzionati a quotarsi presto in Borsa.
Intanto ieri è stata diffusa la notizia dell'accordo raggiunto tra Assolavoro (associazione che riunisce 62 agenzie, produttrici del 98% del fatturato del settore) e i sindacati di categoria Nidil Cgil, Alai Cisl e Uil Cpo. Il punto centrale e più «politico» dell'intesa riguarda lo spinoso tema della stabilizzazione dei lavoratori: per via contrattuale, si è deciso di muoversi sulla falsariga del Protocollo welfare dello scorso anno, che aveva normato i contratti a tempo determinato (concedendo solo un contratto dopo i 36 mesi, e poi la stabilizzazione), ma non interveniva sul lavoro interinale.
Il tema era tornato al centro delle cronache nelle scorse settimane, quando sindacati e agenzie interinali si trovavano al tavolo delle trattative, e il ministro del Welfare Maurizio Sacconi - sollecitato dai precari della Rai - aveva preannunciato un intervento legislativo di modifica del Protocollo. «Abbiamo spinto sulla via contrattuale anche per evitare incursioni - spiega la segretaria generale del Nidil Cgil, Filomena Trizio - E abbiamo concordato che ci sarà una stabilizzazione automatica dei lavoratori dopo 36 mesi continuativi presso la stessa impresa utilizzatrice, o dopo 42 anche non continuativi presso diverse imprese. Nei 42 mesi sono conteggiati anche i periodi di non lavoro per infortunio, la maternità obbligatoria e la formazione precedente alle missioni. Se le agenzie decideranno invece di assumere a tempo indeterminato entro i primi 21 mesi, potranno usufruire di incentivi dalla bilateralità. Inoltre, l'indennità di disponibilità sale da 500 a 700 euro mensili».
Cambiano anche le regole sulla sicurezza del lavoro: il lavoratore interinale che non è stato formato adeguatamente o non ha ricevuto le strumentazioni di sicurezza potrà dimettersi per giusta causa, conservando la retribuzione. Quanto alla maternità, è istituita un'indennità una tantum di 1400 euro per chi non può accedere alle prestazioni Inps, mentre la lavoratrice che esce dalla maternità e ne farà richiesta potrà usufruire di un diritto di precedenza per accedere a mansioni del livello già acquisito.

 

Vite bloccate a 700 euro al mese

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 06/06/2008

I cocoprò sono 20 mila in meno (gli assunti nei call center?) ma restano senza diritti. Un milione di lavoratori sono «dipendenti mascherati». Il rapporto Cgil

Non si parla più tanto dei lavoratori precari, ma esistono ancora. La «vulgata» diffusa dal nuovo governo è che la legge 30 avrebbe risolto le ambiguità tra chi è veramente autonomo e chi non lo è (e una recente intervista del segretario Cisl Raffaele Bonanni sul Magazine del Corsera dava la medesima lettura), salvo condannare quei «rari abusi» che dovrebbe essere il giudice a sanzionare. Ma certo non si può mandare un ispettore ogni giorno in ogni impresa del Paese, e così le aziende e la pubblica amministrazione continuano a utilizzare quelle tipologie contrattuali come il cococò e cocoprò, l'associato in partecipazione e la Partita Iva, che di fatto assicurano un notevole risparmio dei costi, garantendo oltretutto il «licenziamento libero» non appena l'imprenditore ne dovesse sentire la necessità. Una descrizione aggiornata di questa particolare «specie» di precari - limitata cioè al lavoro parasubordinato e in Partita Iva - viene dall'ormai consueto rapporto del Nidil Cgil e della Sapienza di Roma, giunto alla sua terza edizione.
QUEI VENTIMILA STABILIZZATI
I numeri sono relativi agli iscritti del fondo parasubordinati dell'Inps, che nel 2007 ha registrato 1.556.978 persone che hanno fatto almeno un versamento. Ma questi non sono tutti tecnicamente «precari», dato che circa 500 mila sono amministratori di enti o condomini, o collaboratori che hanno anche rapporti dipendenti o una pensione; il Rapporto si concentra allora sui lavoratori il cui reddito proviene esclusivamente dal contratto parasubordinato: e sono in tutto 836.493. Mentre il totale dei parasubordinati si è praticamente stabilizzato (contando un aumento del 2,4% rispetto al 2006; ma tra il 1996 e il 2004 erano aumentati del +108%, con una media del 9% annuo), i veri e propri «precari» hanno subito per il primo anno una «curiosa» contrazione: -20 mila unità nel 2007, rispetto al 2006, che potrebbero essere (almeno in parte) quei 20 mila operatori dei call center stabilizzati proprio nel 2007, anche se questo la statistica non può dirlo.
La Cgil legge questa «inversione di tendenza» come risultato delle azioni del precedente governo: dalla circolare sui call center, all'aumento dei contributi pensionistici (passati dal 18% al 23,5%), fino agli incentivi per la stabilizzazione. Quanto ai redditi di questi lavoratori, però, la povertà che li contraddistingue è rimasta immutata: il loro reddito medio annuale è di 8.800 euro lordi, che divisi per 12 mensilità fanno poco più di 700 euro al mese. Soglie di reddito tipiche da «no tax area»: e si prefigura, se in futuro la loro condizione non dovesse cambiare, un assegno pensionistico sui 300 euro mensili (anche se non è il Rapporto a calcolarlo, ma gli estensori confermano che gli importi stanno sotto il sussidio sociale). Rispetto al 2006 il reddito è cresciuto di 405 euro annui, pari a un +4,8%, inferiore dunque all'inflazione. Le donne sono particolarmente penalizzate, perché i loro redditi sono in media inferiori del 30% rispetto agli uomini: il reddito annuale medio calcolato è di 6800 euro. I mesi medi di contrattualizzazione sono 7 ogni anno: circa 5 mesi, insomma, restano in media scoperti, senza occupazione.
HANNO UN UNICO DATORE DI LAVORO
Il 90% dei parasubordinati ha un solo committente: forte segnale del fatto che questi lavoratori sono in realtà dei «dipendenti mascherati». La precarietà è in molti casi «persistente»: il 70% aveva un contratto atipico anche nel 2006, e il 50% lo aveva pure nel 2005. L'anno prossimo il rapporto si propone di analizzare se il committente, negli anni, sia sempre lo stesso: il tassello confermerebbe che i cocoprò dovrebbero essere assunti non solo con contratto subordinato, ma anche, molto spesso, a tempo indeterminato. L'età media dell'intera platea è di 40 anni, ma scende a 34 se consideriamo gli atipici monocommittenti. Interessante, infine, è la concentrazione dei precari nelle differenti zone del paese e nei settori produttivi. Se il 55% del totale dei parasubordinati si trova a Nord, e solo il 28% al Centro e il 17% al Sud, le percentuali in qualche modo si invertono se passiamo a considerare i precari veri e propri in rapporto all'intera platea: sono «appena» il 29% in Trentino, ma arrivano quasi al 75% in Calabria e Lazio, e al 65% in Sicilia, Campania, e Puglia. La «maglia nera» spetta a Reggio Calabria: 82,2%, e anche Roma si difende con un bel 74%. I settori più «popolati» sono le telecomunicazioni (87%), i servizi di consulenza (76%), sanità (76%) e ricerca (75%), l'informatica (67%) e l'istruzione (67%). Le partite Iva, infine, conteggiate al 2006, erano 187.334.
Quanto alle possibili «cure», il segretario Cgil Fulvio Fammoni ha indicato ieri che si dovrebbe «continuare nel contrasto sul piano normativo, ispettivo e sul fronte dell'innalzamento dei costi»: «Le stesse agenzie interinali ci hanno indicato come peggiori concorrenti, quelli che fanno dumping applicando contratti atipici o appalti al massimo ribasso». Per Filomena Trizio (Nidil Cgil) «l'aggancio ai minimi del contratto nazionale deve diventare cogente», perché la norma di mera indicazione della passata finanziaria non è servita ad aumentare i compensi.

I no Tav ripartono da Venaus In 1.461 comprano i terreni

di Cristina Marrone

su Corriere della Sera del 16/06/2008

Si ricomincia da qui. Dagli stessi terreni di Venaus, dove la notte dell' 8 gennaio del 2005, la tensione accumulata nei giorni di lotte e proteste sfociò in scontri violenti tra forze dell' ordine e No-Tav. Riparte tutto da quel fazzoletto di terra in cui dovrebbe nascere il cantiere per il contestatissimo tunnel della Torino-Lione. In 1.461 hanno prenotato il loro «posto in prima fila». Ieri toccava la firma. Hanno sfidato pioggia e freddo per firmare davanti al notaio Roberto Martino il gigantesco atto, (sembra un lenzuolo) con tutti i nomi degli acquirenti. Quindici euro a testa per accaparrarsi più o meno un metro quadrato ciascuno dei 2.349 messi in vendita a prezzo simbolico dai quattro proprietari, pure loro del popolo No Tav. Quello di ieri non è che il secondo round. Il 30 marzo scorso era toccato al vigneto di Chiomonte, lottizzato in 1.397 appezzamenti. «Il 30% di chi aveva comprato a Chiomonte lo ha fatto anche qui» spiegano gli assistenti del notaio. Anche Vittorio Agnoletto ha acquistato per procura, come tanti di Bologna, di Taranto, di Lecce e del Mugello. Addirittura dalla vicina Francia «tanto per precisare che dall' altra parte non è vero che son tutti d' accordo» chiarisce Claudio Giorno, che documenta ogni dettaglio con la sua macchina fotografica. L' obiettivo di tutta la manovra? La ditta che dovrà installare il cantiere sarà costretta a inviare migliaia di avvisi per comunicare gli espropri. «Sappiamo bene che questo nostro sforzo non servirà a bloccare la Torino-Lione - spiega Alberto Perino, leader storico dei comitati che non vogliono la Tav e ideatore della nuova strategia - ma almeno complichiamo la vita all' avversario. Siamo qui in più di mille, alla faccia di chi dice che ormai siamo solo quattro gatti». «Il posto in prima fila» è anche l' occasione per mangiare torte, panini e scaldarsi con il vin brulé. Non fosse stato per la pioggia, l' assembramento di gente poteva sembrare una festa di paese. Ma con l' acqua, appunto, restano solo i duri, e ieri erano in tanti. Tra gli irriducibili anche Loredana Bellone, di San Didiero, uno dei quattro comuni (con Bussoleno, Chiusa San Michele e Condove) che non riconoscono più l' Osservatorio tecnico guidato dal commissario di governo Mario Virano. «Ogni pietra di questa valle è nostra - avverte la Bellone - siamo qui per difenderla, la resistenza è nel nostro Dna». Prossimo appuntamento sulla Tav, stavolta istituzionale, martedì alla Comunità montana di Bussoleno. I sindaci presenteranno un progetto alternativo della linea ferroviaria. Top secret il contenuto. «Un' iniziativa allucinante - concordano i barricadieri - perché quel progetto non è mai stato discusso in alcun consiglio comunale».

 

Le ronde della paura

di Marco Bascetta

su Il Manifesto del 10/06/2008

Dall'autogestione del «territorio» a quella dei timori che soffocano il vivere civile. Una parabola pericolosa

Nel generale decadimento delle forme tradizionali di aggregazione politica e sociale, solo una, non certo nuova né presentabile, sembra godere di straordinaria fortuna e popolarità. Si tratta delle famigerate «ronde» che dilagano nei comuni e nei quartieri d'Italia. E' un fenomeno inquietante, ma che non conviene liquidare con una sbrigativa e facilmente condivisibile smorfia di disgusto. Per i più convinti cultori dello stato e delle sue prerogative non dovrebbe sussistere problema alcuno: la sicurezza spetta alle forze dell'ordine e ai suoi funzionari, ogni pretesa di «partecipazione» dei cittadini al controllo del territorio che non si traduca in semplice richiesta di «più polizia» e amore patriottico per gli uomini in divisa rischierebbe di costituire un intralcio se non una prevaricazione. Sebbene anche il punto di vista «statalista» si sia mostrato disposto a molteplici compromessi con lo «spontaneismo poliziesco» oggi in gran voga e con la privatizzazione di diversi comparti repressivi. Ma per chi non considera lo stato come espressione massima e perfetta del vivere collettivo e non si sente rappresentato e tutelato dal potere repressivo della sovranità statale, un problema sussiste e non è dei più semplici. Non è difficile, infatti, ravvisare nelle ronde e nei comitati cittadini, scesi in guerra contro gli immigrati e le più diverse forme di «devianza» o semplice diversità, qualcosa di assai contiguo alle aspirazioni di «autogoverno» o «autodifesa» che sono state anche patrimonio delle lotte popolari e di una tradizione di autonomia politica e organizzativa dai poteri istituzionali e dalle rappresentanze politiche. Qualcuno ricorda le «ronde proletarie»? L'idea del «territorio liberato» e governato dal basso ha da sempre occupato l'immaginario della sinistra rivoluzionaria. Fatto sta che questa idea di autogoverno sembra realizzarsi oggi in forme mostruose, dominate dal risentimento e dalla ferocia della guerra tra poveri. E' la forma perversa di un protagonismo sociale incapace di fissare lo sguardo sulle radici reali del disagio e dello sfruttamento. La Lega è stata, fin dai suoi esordi, la più pronta a cogliere il fenomeno e le sue ambivalenze, a virare le istanze di autogoverno verso un'ottusità ideologica da comunità puritana, verso un corporativismo di carattere territoriale capitanato dai «signori della guerra» contro l'immigrazione e la «devianza», a dare vita a una microstatualità etnicizzata e punitiva. Facendo coincidere l'idea di libertà con la «proprietà privata» di un territorio nel quale convivono, in forme imparentate con l'apartheid, i proprietari padani e, sotto stretto controllo, i loro indispensabili servi stranieri. Le ronde leghiste mettono in scena una militanza localpatriottica garante di questo ordine, hanno il compito, più simbolico che pratico, di rappresentare la «partecipazione del popolo» non solo elettorale, ma nella costruzione di un ordine quotidiano all'insegna del più soffocante conformismo.
A partire dal corporativismo territoriale e culturale padane le ronde dilagano in tutto il paese. Altri partiti della destra (An a Bologna) cavalcano la moda e trovano nelle ronde un modo di aggregare e gratificare i loro giovanotti, mandandoli a caccia di comportamenti disdicevoli, secondo il modello delle guardie iraniane della rivoluzione, quelli che «reprimono il vizio e promuovono la virtù». E, sempre nella disgraziata Bologna, l'ineffabile giunta Cofferati, senza tradire l'amore per lo stato, allestisce la sua ronda sul modello della Stasi (il capillare sistema di delazione della Ddr) addestrando studenti volontari a vigilare sul quartiere studentesco, dissuadendo ed eventualmente denunciando, i trasgressori delle numerose ordinanze repressive emesse dal comune. Ognuno ha le sue tradizioni e i suoi modelli storici.
Ma, aldilà di queste grottesche interpretazioni politiche della "«partecipazione popolare» resta il fatto che nelle città il modello della ronda, i comitati dei residenti contro gli «invasori», notturni e diurni, contro mendicità o prostituzione si moltiplicano di giorno in giorno, prendendo il posto dei vecchi comitati di quartiere che si battevano contro il caro-fitti, il caro-bollette, la carenza dei servizi, l'abbandono dei rioni popolari. L'autogoverno della paura sostituisce l'autogoverno della vita, impoverendola. Tuttavia, fino a quando non si riconoscerà in questo festival dell'intolleranza e della discriminazione qualcosa di familiare, le sembianze deformi della volontà di influire, senza mediazioni, sulle proprie condizioni di vita, il gioco sarà inevitabilmente condotto da quella politica bipartisan che asseconda il risentimento e l'egoismo, traducendoli in una delega all'esercizio della più spietata repressione. Chi meglio della destra è in grado di raccogliere e organizzare un sentire corporativo che non riguarda più, come un tempo, le professioni, ma circostanze biografiche, come l'essere genitori, o abitanti di un quartiere? Il vecchio schema, da cui la sinistra non vuol prendere commiato, recitava così: il singolo rappresentato dal lavoro, il lavoro rappresentato nello stato. Il nuovo schema, assunto in pieno dai partiti politici rappresentati in parlamento nonché da quello che fu il «partito dei sindaci», sembrerebbe invece suonare così : il singolo rappresentato dal sondaggio, il sondaggio rappresentato nello stato. E il sondaggio non raccoglie coscienza, né, come si diceva un tempo, qualcosa di «determinato dall'essere sociale», ma la reazione emotiva a una contingenza, una condizione di sradicamento in balia delle più diverse e inquietanti rappresentazioni, nonché delle più spregiudicate rappresentanze. Una caricatura della democrazia che ne enfatizza i peggiori difetti. E, al tempo stesso, l'illusione di aver detto la propria: «pane al pane e vino al vino». Questi fenomeni sono ben piantati nei modi contemporanei di vivere e di produrre e lì, solo su quel terreno, possono essere contrastati e combattuti, rinunciando all'idea bislacca di restaurare forme più docili e rappresentabili di omogeneità sociale. Il problema è, semmai, riprendere le fila del discorso sull'autogoverno, sulla politica dal basso, sottraendolo all'agghiacciante deriva delle ronde, delle fiaccolate e infine dei piccoli pogrom in cui l'invadente astrazione delle ideologie stataliste e la demagogia corporativa lo hanno precipitato, alimentando il risentimento e la paura.

 

 

 

TELECOM LICENZIA, LA BORSA APPROVA

 

Roberto Farneti
La madre di tutte le privatizzazioni continua a mietere vittime. La concorrenza nel settore delle telecomunicazioni si fa sempre più spietata? I margini di profitto si riducono? Non importa, tanto a pagare sono sempre i soliti noti, ossia lavoratori e lavoratrici. Nel primo trimestre 2008, il bilancio di Telecom ha registrato una contrazione degli utili del 35%, a fronte di un debito finanziario netto che resta elevatissimo: 35,43 miliardi al 31 marzo, frutto della pesante eredità lasciata dai vari corsari dell'imprenditoria che hanno scaricato sull'azienda i costi delle loro scalate.
Invece di puntare allo sviluppo, predisponendo un piano industriale adeguato, la nuova dirigenza arrivata dopo l'ingresso di Telefonica annuncia adesso tagli al personale pari a 5mila posti entro il 2010, con l'obiettivo di realizzare risparmi a regime per 300 milioni di euro e una riduzione dei costi operativi del 40% in tre anni. «Non possiamo sempre abbassare i prezzi senza tagliare i costi. Altrimenti dovremo fermare gli investimenti», è la spiegazione fornita dall'amministratore delegato, Franco Bernabè, in una intervista al Sole 24 Ore . Applaudono i mercati: ieri a Piazza Affari il titolo Telecom ha messo a segno un più 3,95% a 1,448 euro. Con Bernabè si schierano anche il presidente di Mediobanca Cesare Geronzi, e l'a.d. di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera.
Una scelta «negativa, confusa, contraddittoria. Sbagliata nel merito e nel metodo, quindi da respingere», ribattono invece le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil. «Non ci sembra un buon metodo - obiettano i sindacati - quello che nel mese di marzo annuncia efficienze per 1,3 miliardi, prevalentemente affidate alle sinergie con Telefonica, ed oggi, mentre prosegue quel lavoro sinergico, "sparare" un obiettivo di 5 mila esuberi 5, il maggiore come consistenza dal 2000, rimandando a fine anno le scelte industriali».
Cgil, Cisl e Uil «non negano difficoltà e problemi oggettivi» di mercato, quali «la riduzione dei prezzi, lo spostamento da vecchi servizi ad alto guadagno a nuovi più ricchi di contenuti ma meno remunerativi». Ma sono problemi, obiettano i sindacati confederali, che vanno comunque risolti tramite una «discussione seria sul piano industriale», rispetto alla quale, aggiungono, «come sempre, non ci tireremo indietro».
Bernabé, nella citata intervista, sostiene invece che i 5mila esuberi «derivano ancora dalla fusione Telecom-Tim, dal processo di integrazione» tra fisso e mobile «che si era interrotto dopo l'uscita di Marco Tronchetti Provera e che ora è stato riavviato».
C'è il rischio che una delle aree più interessate dai licenziamenti sia quella "customer", vale a dire di gestione del cliente, sia dal punto di vista commerciale che amministrativo. Non a caso il Codacons lancia l'allarme: «In questi ultimi anni - afferma l'associazione - il servizio agli utenti è progressivamente peggiorato ed il rischio, con questi tagli, è che peggiori ancora di più». Il Codacons chiede, quindi, all'Garante «di tutelare i consumatori finali accertando se da questo piano scaturiscano possibili disservizi per gli utenti. In alternativa chiede l'abolizione del canone». La Telecom suddivide i propri clienti in tre fasce. Inutile dire che i più penalizzati - dal punto di vista dell'assistenza - saranno quelli che appartengono alla fascia meno redditizia.
Eppure per ridurre i costi ci sono altre strade: «Analizzando i bilanci - spiega Marina Biggiero, Rsu Cobas Telecom - abbiamo scoperto, che ci sono 4.461 tra dirigenti e quadri che comandano 54.151 lavoratori. Praticamente un dirigente ogni 59 unità, un quadro ogni 15». Una abbondanza di capi che non trova riscontri da nessun altra parte. «Questa struttura dirigenziale - sottolinea la delegata - vale il 25% del costo del lavoro complessivo».


Liberazione 06/06/2008

 

 

Tremonti vuol fare Robin Hood? Approvi la Tobin Tax

     

Andrea Baranes*
Visto il prezzo del petrolio, e gli utili delle multinazionali del settore, suscita non poco interesse l'uscita di ieri di Tremonti su una "Robin Hood Tax" da fare pagare ai petrolieri. A dire il vero il ministro non è nuovo a proposte "originali" a cui non seguono provvedimenti. Nel suo precedente mandato, infatti, aveva già lanciato l'idea di una "De-Tax", uno sgravio fiscale per le imprese che avrebbero stanziato una pari somma di denaro in beneficenza (ovvero una sorta di "5x1000" aziendale), presentato all'epoca come un aiuto allo sviluppo senza espopri. Ora, il ministro va più in là e parla di una «tassa per dare di più a chi ha bisogno» (già una novità). E identifica i cattivi di Sherwood nei petrolieri. Se vuole fare sul serio, però, come promotori in Italia dell'unica proposta riconosciuta globalmente (addirittura con un Nobel dell'Economia) come "Tassa Robin Hood" ci permettiamo di suggerirgli alcune caratteristiche minime per realizzarla davvero.
Senza gli impatti dello scoppio della bolla dei mutui subprime, dovuta in primo luogo alla mancanza di regolamentazione della finanza, prima della recente crisi delle materie prime, a partire da quelle alimentari, e al ruolo della speculazione, il "normale" funzionamento dei mercati finanziari, e in particolare di quello delle valute al 90% speculativi, registra scambi per 1.500 miliardi di dollari al giorno. Un'enormità quotidiana. Tanto per chiarire, il valore di merci e servizi scambiati nel mondo in un anno (anno!) è stimato in 10mila miliardi di dollari. Ogni settimana sul solo mercato delle valute circola quindi una somma superiore al totale annuo del commercio internazionale. Una "Robin Hood Tax" - togliere a chi ha troppo per dare a chi ha troppo poco - dovrebbe quindi andare a colpire gli speculatori, fornire uno strumento di politica economica per regolamentare lo strapotere della finanza e infine garantire un gettito utilizzabile per le fasce più povere della popolazione, per la tutela dei Beni Pubblici Globali e la cooperazione internazionale.
Una simile proposta, come detto, esiste e prevede un'imposta minima sulle transazioni valutarie, tale da scoraggiare la speculazione senza intaccare gli scambi produttivi. Vista la dimensione dei mercati valutari, permetterebbe di raccogliere ogni anno decine di miliardi di dollari. E' la famosa Tobin Tax, che prende il nome dal Nobel James Tobin che già negli anni '70 ne propose una prima versione. Da allora moltissimi studi hanno perfezionato la proposta e chiarito tutte le questioni tecniche e le possibili critiche contro una sua applicazione. Oggi è unicamente una questione di volontà politica. Il maggiore ostacolo alla sua entrata in vigore è rappresentato dall'enorme potere di lobby del mondo finanziario, che non intende rinunciare a una minima parte dei giganteschi profitti della speculazione. Il lavoro delle reti e delle organizzazioni della società civile internazionale e la stessa gravità delle continue crisi finanziarie stanno però modificando il quadro politico. Sempre più governi si stanno esprimendo in favore di una simile misura. E anche il consigliere per la finanza innovativa del Segretario Generale dell'Onu ha recentemente dichiarato ufficialmente: «Dobbiamo avere delle tasse sulle transazioni valutarie».
A dicembre di quest'anno, a Doha, si svolgerà il vertice internazionale sulla Finanza per lo Sviluppo, nel quale i governi sono chiamati a trovare le risorse necessarie per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e per la lotta contro la povertà. E l'Italia? Uno degli ultimi atti dell'esecutivo Prodi era stata la decisione di nominare una Commissione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per valutare il lavoro e i passi concreti verso l'introduzione di un'imposta sulle transazioni valutarie nell'area euro. Ricordiamo inoltre che una proposta di legge sulla Tobin Tax giace in Parlamento da diversi anni, a seguito della proposta di legge di iniziativa popolare attorno alla quale Attac e altre organizzazioni, avevano raccolto quasi 200mila firme. Oggi è il momento di darle corso definitivamente (è ancora viva nelle Commissioni parlamentari l'istruttoria e il testo della legge). Tanto più che nel suo recente libro "La paura e la speranza", lo stesso Tremonti riprende diversi argomenti che sembrano avvalorare la necessità di una tale imposta. E' questione di volontà politica. Tremonti statista Robin Hood o Tremonti De-Tax da buon commercialista di imprese? A lui la risposta
*Attac Italia/Crbm


04/06/2008

 

PIU' SOLDI E PRODUTTIVITA', LA SCUOLA DI GELMINI (con Gramsci e Berlusconi)

Davide Varì
Cita Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista italiano, e Silvio Berlusconi, creatore di Forza Italia. Riprende «la fatica e la sofferenza necessaria della scuola» dell'intellettuale sardo; e le 3 i - che nel frattempo sono diventate 4: inglese, internet, impresa e italiano - dell'uomo venuto da Arcore.
Si presenta così la nuova ministra dell'istruzione Mariastella Gelmini, con questo mix culturale che pesca tra sacro e profano, tra alto e basso. Lo ha fatto in occasione della prima audizione dedicata alla scuola italiana che si è svolta ieri alla Camera dei deputati: una prima indicazione delle intenzioni del governo in materia di pubblica istruzione.
Prima cosa, nessuna grande riforma in vista: «Noi - ha spiegato la ministra - abbiamo bisogno di vero cambiamento, non di presunte riforme». «Per troppi anni abbiamo investito le nostre energie sull'attività legislativa - ha continuato Gelmini - abbiamo imbullonato e sbullonato leggi e decreti, badando più al colore politico che alla sostanza dei problemi».
Poi l'apertura, l'ennesima, al Partito democratico e all'ex ministro Fioroni: «E' utile preservare e mettere a sistema quanto di buono fatto dai miei predecessori». Per questo Gelmini non ha voluto ritirare la circolare sui debiti di Fioroni.
Nel suo intervento la ministra ha toccato tutti i punti nevralgici del sistema scuola: dal bullismo, rispetto al quale ha chiesto «tolleranza zero»; agli stipendi dei professori, tra i più bassi d'Europa. «Questa legislatura - ha dichiarato Gelmini - deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media Ocse».
Il ministro ha poi comunicato i "numeri" di questa emergenza salariale: «Non possiamo ignorare che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore dopo 15 anni di insegnamento è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa. Fosse in Germania ne guadagnerebbe 20 mila in più, in Finlandia 16 mila in più. La media Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è superiore ai 40 mila euro l'anno».
Poi l'eterna questione del merito, un capitolo aperto dal ministro Renato Brunetta che trova terreno fertile nel contestatissimo universo scuola. Merito, insieme ad autonomia e valutazione sono infatti tre pilastri fondamentali della scuola italiana: «Autonomia significa valorizzare la governance degli istituti, dotarla di poteri e risorse adeguate», ma anche pretendere dalle scuole «capacità gestionale e di programmazione degli interventi». Capacità che deve essere giudicata con un sistema di valutazione «che certifichi in trasparenza come e con quali risultati viene speso il denaro pubblico». Merito, invece, vuol dire che «la scuola deve premiare gli studenti migliori», ma anche che devono esistere «sistemi premianti per il corpo docente e una valutazione del loro lavoro». Di qui la citazione del programma del Partito democratico,c he parla di «una vera e propria carriera professionale degli insegnanti che valorizzi il merito e l'impegno».
Infine la questione delle scuole private. «Anche le scuole paritarie fanno istruzione pubblica», ha dichiarato, «l'istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole paritarie». E sui finanziamenti, pochi dubbi: «Penso - ha affermato a proposito delle scuole paritarie - che si debba andare incontro alle famiglie che chiedono di poter esercitare la propria scelta educativa».
Degna di nota la proposta di Roberto Cota, capogruppo leghista alla Camera: «A scuola - ha infatti dichiarato - va introdotta un'ora settimanale di studio del federalismo».
Ma nelle stesse ore in cui il ministro snocciolava la scuola del futuro, Bankitalia rendeva noto uno studio devastante sul sistema formativo italiano che di fatto discrimina i poveri:
«La probabilità di uno studente appartenente alla classe sociale più elevata di essere iscritto a un liceo è sette volte più alta di quella di uno studente con le più sfavorevoli condizioni familiari. Tali evidenze sono ricorrenti in tutte le aree geografiche». Insomma, uno svantaggio che inizia dalla nascita, dal livello sociale nel quale si ha la sorta di nascere.
Maglia nera, ovviamente, al mezzogiorno italiano. Secondo lo studio di Bankitalia «gli studenti meridionali sono al di sotto degli standard internazionali e di quelli delle regioni settentrionali, in tutte le materie oggetto di valutazione (comprensione del testo, matematica, scienze)». Divari che sono «ancora più ampi negli istituti tecnici e professionali, e crescono con l'avanzare del percorso scolastico».


Liberazione 11/06/2008

 

Fao, un piccolo, brutto accordo: Sì al mercato, No ai diritti

 

Sabina Morandi
Quando la riunione plenaria conclusiva si è aperta con cinque o sei ore di ritardo ed è stata subito interrotta, s'è sentito il sapore della farsa. Della farsa, o quanto meno del caos che regnava all'interno del palazzo della Fao se comincia una plenaria senza la delegazione europea. Erano le 18 e 50, e l'imbarazzante stallo ancora non si era risolto. Riprendono, alle 19 e 30, con la protesta dei delegati che, sostengono «non sono stati sufficientemente informati». Alle 20 l'approvazione del rapporto del Comitato plenario, il primo documento finale della Conferenza, viene bloccato dall'Argentina, che non vuole vedersi imposte regole sulle restrizioni all'export. Poi Cuba e Venezuela parlano di «supposta maggioranza» per ben due volte, e i toni sono durissimi. «E' disdicevole continuare così, non pensiamo più a quelli che soffrono» tuona il delegato del Congo.
E' in questo clima che viene approvata la dichiarazione finale, dopo 72 ore di trattative e l'opposizione dell'Argentina ha fatto aggiungere la sua dissociazione, in coda al documento: un clima da Wto, ovvero da organizzazione mondiale del commercio, che non ci si aspettava certo di trovare all'interno del palazzo di un'organizzazione dovrebbe occuparsi della fame nel mondo. Così, dopo la passerella dei capi di Stato, i vergognosi banchetti e le photo opportunity, ieri alla Fao è stato il giorno della resa dei conti.
Certo, fin dalle prime ore della mattina è stato subito chiaro le cose non erano così lisce come le stanno dipingendo i telegiornali. Sul documento conclusivo - che doveva essere pronto già in mattinata - si è scatenato un braccio di ferro imprevisto durato tutto il giorno. Prima si è messa di traverso l'Argentina, che rivendica il diritto dei paesi produttori di sospendere le esportazioni in caso di grave crisi alimentare. Poi si sono impuntati i paesi del G77 - ovvero i più poveri ma anche Cina, India Brasile e Argentina - a rifiutarsi di firmare un documento dal quale sono sparite le riflessioni sulle speculazioni finanziarie e sono ricomparse invece, pesantemente, tutte le indicazioni sul ciclo di Doha. Insomma: visto che dal '99 il Wto non riesce a sbloccarsi nelle sedi appropriate ecco che qualche genio ha pensato bene di farlo rientrare dalla finestra della Fao incontrando, com'era prevedibile, esattamente lo stesso tipo opposizione. Davvero scandaloso il paragrafo che condiziona gli aiuti per l'agricoltura all'adesione di un ciclo di negoziati - appunto Doha - che nelle sedi opportune è stato respinto per ben due volte, a Cancun e ad Hong Kong.
Una dichiarazione pessima che spiega lo spettacolo imbarazzante delle ultime ore, dove i generici appelli alla sovranità alimentare sono smentiti dagli inviti a «utilizzare il meno possibile strumenti restrittivi che possono incrementare la volatilità dei prezzi internazionali». Insomma, se decido di accumulare derrate alimentari per evitare la carestia rischio di falsare il mercato più dei traders che scommettono sui prezzi futuri della borsa di Chicago. Chissà cosa intendono con la parola "sovranità" gli estensori del documento. Un tantino di prudenza sui biocombustibili che «vanno ancora studiati» ma che sono certamente «un'opportunità», per non fare arrabbiare i brasiliani. Un po' di «assistenza tecnica per incrementare la produzione agricola» che sta per biotecnologie, ovvero agrobusiness, e qualche spicciolo per i piccoli agricoltori che «vano aiutati», sempre che i loro governanti accettino di piegarsi ai dictat Wto. Peggio di così è difficile fare.
La bozza della dichiarazione finale, circolata in mattinata, aveva già fatto infuriare i rappresentanti dei piccoli agricoltori, dei pescatori artigianali, degli indigeni e delle organizzazioni della società civile e i movimenti sociali riuniti in conferenza stampa per portare le conclusioni del controvertice Terra Preta. Bisogna dire che il clima era già incandescente per il trattamento che viene riservato loro in questo vertice: il "dialogo" con quelli che sono poi i veri protagonisti delle politiche agricole, e che rappresentano anche numericamente la realtà più consistente del pianete, si è ridotto a una stretta di mano nell'atrio e a un saluto in sala stampa da parte del direttore generale Jacques Djouf. Niente male come processo di consultazione democratica. Del resto la Fao smentisce i propri stessi tecnici che in una sala parlano di aumento della produttività e in un'altra s'indignano per «il perdurare della fame visto che adesso ci sarebbe da mangiare per tutti» come ha detto la responsabile del Pam. Ma se la produzione non è in calo e la domanda è soddisfatta, cos'è che genera la crisi dei prezzi?
Per Maryam Rahmanian di Cenesta (Iran) sono semplicemente i risultati della strategia perseguita da Banca Mondiale e Fondo Monetario fin dal '96, quando cominciò l'assalto alla sovranità alimentare. A questo bisogna aggiungere il cambiamento climatico, l'avvento dei biocombustibili ma, soprattutto, la speculazione sui future alimentari che sta portando i prezzi alle stelle. Al primo posto della piattaforma di azione collettiva la coalizione internazionale mette infatti «il blocco immediato di questo tipo di scambi chiedendo ai governi di avviare procedimenti giuridici a favore delle vittime dell'emergenza alimentare e contro gli speculatori». Rahmanian sottolinea anche il ruolo che i piccoli agricoltori possono giocare nella lotta al cambiamento climatico «perché sono parte della soluzione, e non del problema». Resta il fatto che, «mai, come in questo vertice, i veri attori della crisi non hanno trovato voce».
Flavio Valente di FIAN (la sigla che riunisce movimenti e cooperative sociali del Brasile) non ha dubbi: se vengono proposte le stesse soluzioni di sempre, quelle che hanno portato alla crisi, è perché in realtà «ci sono due agende, una dei piccoli agricoltori, il cui ruolo viene riconosciuto solo nominalmente, e l'altra che punta a mettere sotto il controllo delle grandi imprese l'intero mercato alimentare globale» e in quest'ottica la crisi è un'opportunità che nessuno ha interesse di risolvere. «L'esclusione totale della società civile» sottolinea Valente «era necessaria per perseguire il proprio obiettivo, che non è risolvere la crisi alimentare ma sbloccare i negoziati di Doha» ed è per questo che vengono proposte soluzioni che non solo non garantiscono la sovranità alimentare ma la riducono direttamente come un'ulteriore estensione delle monoculture destinate all'export, gli agrocombustibili e i monopoli, sempre più rafforzati dall'impiego della chimica e dei semi sotto brevetto. Per Ndougou Fall di Roppa, il sindacato agricolo dell'Africa occidentale che rappresenta da solo 45 milioni di contadini rivendica «il diritto di proteggere i mercati locali dall'invasione dei prodotti delle multinazionali» e si domanda perché, «dopo aver riconosciuto l'importanza dei piccoli agricoltori per la sicurezza alimentare, per la lotta al cambiamento climatico e per il mantenimento della biodiversità, poi si è deciso di imboccare tutta un'altra strada». Come i rappresentanti delle altre organizzazioni presenti alla conferenza stampa - da Oxfam al Movimento Sem Terra, da Friends of Earth al World Forum of Fisher Peoples passando per Via Campesina - anche Fall sottolinea l'assenza di dialogo: «I nostri paesi sono colpiti duramente dalla crisi, per questo sono qui. Speravamo di interagire con le autorità visto che siamo protagonisti quanto gli esperti, ma l'interazione non c'è stata».
Come evitare che la crisi attuale sia utilizzata dalle elite politiche ed economiche come quella del 1974 che, come, ricorda il documento conclusivo dell'International NGO/CSO Planning Committee for Food Sovereignity, venne utilizzata per frammentare le istituzioni internazionali e lanciare la devastate stagione dei piani di aggiustamento strutturale? Prima di tutto è necessaria l'istituzione di una Commissione sulla sovranità alimentare sotto l'egida delle Nazioni Unite, formata dai rappresentanti dei governi e delle organizzazioni di contadini, pescatori, indigeni e pastori, in cui vengano identificate in modo collegiale le strategie per uscire dalla crisi. In secondo luogo ci si propone di chiedere, in tempi brevi, che I governi «avviino procedimenti giuridici a favore delle vittime dell'emergenza alimentare, tendendo in considerazione, attraverso procedimenti criminali, le società e le istituzioni (inclusi i governi), le cui azioni, traendo profitto dagli input dei prodotti agricoli, hanno legato alle comunità il loro diritto al cibo». Una dichiarazione di guerra alla speculazione, insomma, in attesa che «la crisi alimentare venga finalmente trattata come un crimine contro l'umanità» come ha concluso Herman Kumara (Sri Lanka) rappresentante del Forum mondiale dei pescatori artigianali.
Chi si pensava che lorsignori avrebbero fatto qualcosa per scongiurare la carestia globale era destinato fin dall'inizio a rimanere deluso, ma certo nessuno si aspettava di assistere a questo spettacolo. Evidentemente, secondo la logica ormai nota del "capitalismo delle catastrofi", il vertice sulla crisi alimentare serviva solo ad aprire la strada a «un serio tentativo dell'agenda delle corporation, di mettere le mani sulle Nazioni Unite» come ha detto Antonio Onorati di Crocevia. Un tentativo che è riuscito sulla carta, ma al prezzo di sacrificare quel minimo di credibilità che i governi - e le Nazioni Unite - ancora avevano. E' passata la solita lista di regole inapplicabili che i governi - e lo dimostra la mezza rivolta che ha accompagnato la faticosa l'approvazione finale - non potranno mai rispettare. Perché i contadini puoi anche non farli parlare ma i loro governi sanno che alla fine è con loro che dovranno fare i conti: nel caos alimentare provocato dai fondamentalisti del libero commercio, gente che non arretra nemmeno di fronte alla prospettiva di una carestia globale, soltanto i contadini potranno darci da mangiare.


Liberazione 06/06/2008

 

 

Appunti di fine anno di un maestro elementare

 
di Gennaro Loffredo, responsabile dip scuola Prc-Se

L’anno scolastico è finito. Un sospiro di sollievo per tanti. Mentre i più piccoli si apprestano ad affollare centri estivi e case dei/delle nonni/e, ed è (in extremis)  stata fatta un po’ più di chiarezza sul recupero dei debiti per gli studenti delle superiori, e poco o nulla si sa delle prove suppletive, calate completamente dall’alto, che dovrebbero (il condizionale è doveroso poiché ciascuna scuola può decidere se farle valere o meno nel giudizio finale) sostenere gli allievi che si licenziano dalla scuola media, la ministra Gelmini sta cercando di capire come funziona la scuola in una full immersion con la sorella insegnante - non so come farà per università e ricerca -.  Valentina Aprea intanto, che tutti pensavamo fosse la naturale sostituta della Moratti, gioca le sue carte e deposita alla Camera un ddl di 22 articoli dal titolo “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”.

 

In esso affrontano tematiche che già conosciamo e che già, durante il precedente governo berlusconi erano state parzialmente discusse senza mai però approdare in aula. Stavolta la Aprea, vuoi perché non coinvolta direttamente in ruoli di governo, vuoi perché l’unica del settore – si è vista scavalcata anche da Pizza a cui qualcosa bisognava pur dare per il ritiro del ricorso che avrebbe fatto slittare le elezioni dello scorso aprile – vuoi perché si avvicina l’estate (fisiologicamente calano interesse ed attenzione sia per la stanchezza di fine anno scolastico che per l’avvicinarsi delle vacanze) sembra voler procedere in gran fretta. Tant’è che il ddl è già stato assegnato alla competente Commissione Istruzione e Cultura della Camera dei Deputati, che lei presiede. E’ una vera e propria rivoluzione dell’intero sistema pubblico di istruzione! In negativo ovviamente.

 

Mi rivolgo ai colleghi e alle colleghe, ai precari docenti ed ata, agli studenti, ai genitori, ai sindacati, alle associazioni di categoria e a quanti a vari livelli si occupano di scuola. Alla stampa. La scuola pubblica è in pericolo. La società tutta è in pericolo poiché si mette in discussione un diritto fondamentale della nostra Costituzione: il diritto allo studio. Brunetta parla della scuola come se fosse una qualsiasi fabbrica, la Costituzione viene dilaniata con la promessa di Berlusconi al Papa di finanziare direttamente le scuole private paritarie per aumentare la competizione verso l’alto con quelle pubbliche che nel frattempo subiscono duri tagli agli organici. La Gelmini studia…Pizza…?... La Aprea fa tutto il resto. Riscrive lo stato giuridico dei docenti, ciascuna scuola bandisce i concorsi per assumere docenti ed ata in conformazione al Pof (Piano dell’offerta formativa), spariscono le rappresentanze sindacali, vengono eliminati consigli di istituto e di circolo e trasformati in consigli di amministrazione. Al posto di ogni scuola una fondazione. La gestione? Delle Regioni, naturalmente. E quest’ultima cosa fa il paio con la debolezza con la quale é stato risolto l’affidamento del Miur alla Gelmini. Oserei dire quasi come il Turismo affidato alla Brambilla. Scuola, Università e Ricerca sono questioni delicate. Molti governi ci hanno lasciato le penne. Ma se il progetto è quello di affidare tutto alle Regioni il quesito è risolto. Anche la Gelmini, che avrà sicuramente alte competenze in altri campi, va bene. Solo la scuola riguarda circa 15milioni di persone. Ed è centrale nel prefigurare un nuovo modello di società. Rimettiamo queste tematiche al centro del dibattito politico, non lasciamo che se ne occupino solo gli addetti ai lavori. Riguarda tutti e tutte; l’acquisizione di ogni seppur piccolo diritto di cittadinanza cresce nelle scuole, nelle aule, dove bambini e bambine di tutto il mondo ormai passano, si incontrano, crescono, maturano pensiero critico. E tutto ciò non avviene a caso. C’è il lavoro continuo, scrupoloso, competente, attento di una comunità educativa che della scuola ha sempre avuto cura. Nonostante i governi, nonostante la scarsità delle risorse, nonostante la denigrazione continua dei mezzi di comunicazione di massa che mettono l’accento sempre e solamente sui lati negativi. Bullismo dilagante, insegnanti fannulloni,….mai, dico mai, ho avuto il piacere di vedere in un telegiornale o sulla prima pagina di un qualsiasi quotidiano, una notizia che esaltasse quanto di buono e di prezioso anonimi insegnati portano avanti con fatica. Già, quello è solo il nostro dovere.

 

Eppure la televisione in passato ha svolto un ruolo importante nell’alfabetizzazione della nostra società. Molti hanno imparato a leggere e scrivere grazie alle lezioni del maestro Manzi (1milione e mezzo conseguirono la licenza elementare) che contribuì notevolmente all’unificazione culturale della nazione attraverso l’insegnamento della lingua italiana. E’ prima di “Non è mai troppo tardi”, nel 1958, “Telescuola”, con 4milioni di telespettatori al giorno, che con il maestro Accatino innovò la didattica dell'Educazione Artistica, promuovendo la docenza della storia dell'arte e dell'educazione all'immagine nella scuola dell'obbligo. Oggi per vedere un programma un po’ più intelligente bisogna aspettare le tre di notte.


Roma, 6 Giugno 2008 

 

 

 Provate ad immaginare.
Una persona del vostro quartiere è sorpresa dentro un appartamento: forse voleva rubare, forse voleva portar via una neonata. Viene arrestata.

Provate ad immaginare.
Il giorno dopo e poi quelli successivi, ragazzi in motorino lanciano una molotov contro la casa di un vostro vicino. L'incendio brucia in parte l'appartamento ma, per fortuna, l'uomo, la donna e i due bambini che ci vivono se la cavano. Spaventati, ma incolumi. Poi è la volta di un intero quartiere: arrivano a centinaia con i bastoni e le bottiglie incendiarie. La gente scappa si rifugia da parenti.

Provate ad immaginare.
Un bambino che vive ad un paio di isolati da casa vostra viene circondato da gente ostile che, sapendo che è del vostro paese, lo insulta, lo schiaffeggia, lo spinge a forza dentro una fontana. Il bambino è piccolo, forse piange, forse stringe i denti perché la violenza degli altri è un pane duro che ha imparato a masticare sin da quando è nato.

Provate ad immaginare.
La furia non si placa: anche i quartieri vicini sono sotto assedio. Raccolte in fretta poche povere cose intere famiglie si allontanano. La polizia non ferma nessuno degli incendiari ma "scorta" voi e i vostri compaesani. Andate via. Non sapete dove. Lontano dalle molotov, lontano dalla rabbia, lontano dalla ferocia di quelli che sino al giorno prima vivevano a poche centinaia di metri da voi. Andate in cerca di un buco nascosto dove, forse, potrete resistere per un po'. Fino alla prossima molotov.

Provate ad immaginare.
Vostri compaesani e parenti che vivono lontano, in altre città, vengono assaliti, le loro case bruciate. Anche loro sono in strada.

Provate ad immaginare.
Il governo del vostro paese vara misure straordinarie per far fronte all'emergenza. Leggi per fermare la violenza e l'illegalità. Leggi contro di voi ed i vostri parenti, contro i vostri vicini di casa, contro quelli del vostro quartiere e contro tutti quelli del vostro stesso paese.

Provate ad immaginare di essere in Italia, in questo maggio del 2008.
Non vi pare possibile?
Eppure è cronaca di tutti i giorni. La cronaca di un pogrom.

Un pogrom che sta incendiando l'Italia. Brucia le baracche dei rom e corrode la coscienza civile di tanti di noi. Qualcuno agisce, i più plaudono silenti e rancorosi, convinti che da oggi saranno più sicuri. Al riparo dalla povertà degli ultimi, di quelli che non si lavano perché non hanno acqua neppure per bere, di quelli che di rado lavorano, perché nessuno li vuole, di quelli che vanno a scuola pochi mesi, tra uno sgombero di polizia ed un rogo razzista.

Forse pensate che questo non vi riguarda. Forse pensate che questo a voi non capiterà mai. Siete cittadini d'Europa, voi. Siete gente che lavora, che paga il mutuo, che manda i figli a scuola. Forse avete ragione. Forse no. Nella roulette russa della guerra sociale c'è chi affonda e chi resta a galla. Il lavoro non c'è, e se c'è è precario, pericoloso, malpagato. Il mutuo vi strangola, non ce la fate ad arrivare alla fine del mese, a pagare tutte le spese, ma forse, tirando a campare, con la paura che vi stringe la gola, ce la farete. Gli altri, quelli che restano fuori, che crepino pure. Nemici, anche i bambini. O li caccia il governo o ci penserete voi stessi, di notte con i bastoni e le molotov. A fare pulizia. Etnica.
Intanto, giorno dopo giorno, i nemici, quelli veri, vi portano via la vita, rendono nero il vostro futuro. Il nemico marcia sempre alla nostra testa: è il padrone che sfrutta, è il politico che pretende di decidere per noi, che vuole che i penultimi combattano gli ultimi, perché la guerra tra poveri cancella la guerra sociale.

Provate ad immaginare

che un giorno il padrone vi licenzi, che la banca si prenda la casa, che la strada inghiotta voi e i vostri figli.
Sarà il vostro turno. Ma allora non ci sarà più nessuno capace di indignazione, capace di rivolta.

Provate ad immaginare

un futuro come questo presente, da incubo.

Un'offensiva razzista senza precedenti che trova pericolosi consensi anche in quegli strati popolari che avrebbero mille motivi per rivoltarsi contro ben altri soggetti e, cioè, contro i poteri forti e i suoi costanti soprusi sulle classi subalterne.
Morti sul lavoro, salari da fame, precarietà diffusa e disoccupazione, problema casa, distruzione dei servizi sociali, problematiche sociali diffuse il cui responsabile ha un nome e cognome ben chiaro: il sistema capitalista, che continua a produrre super-profitti da una parte, guerre, sfruttamento e miseria dall'altra.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: strada libera per la crescita di un nuovo fascismo, istituzionale, squadrista e addirittura popolare.

 

Provate ad immaginare.
Un giorno qualcuno potrebbe chiedervi "dove eravate mentre bruciavano le case, deportavano la gente, ammazzavano i bambini?"
Non dite che non sapevate, non dite che non avevate capito, non dite che voi non c'entrate.


Chi non ferma la barbarie ne è complice.

 

Fermiamo i nuovi pogrom prima che sia troppo tardi.
Respingiamo il nuovo pacchetto sicurezza.

 

maggio 2008

 

Frigoriferi e lavatrici, la storia si ripete Ieri tutti in Italia, oggi si emigra a Oriente

di Manuela Cartosio

su Il Manifesto del 04/06/2008

Electrolux, Candy, Merloni: gli elettrodomestici «bianchi» di fascia bassa si trasferiscono in Turchia e nei paesi dell'Est, dove il lavoro costa meno e i consumatori sono più poveri. Come nell'Italia del boom

A Comerio (Varese), quartier generale della Whirlpool Italia, hanno tirato un sospiro di sollievo. La multinazionale, numero uno mondiale degli elettrodomestici, ha confermato un pacchetto d'investimenti da distribuire sui sei stabilimenti che possiede nel nostro paese. Per un paio d'anni i seimila dipendenti italiani della Whirlpool possono stare relativamente tranquilli. Relativamente, perché il settore degli elettrodomestici è uno dei più esposti alle delocalizzazioni. Le aziende si spostano non solo per inseguire il costo del lavoro più basso ma anche per produrre nei paesi dove si aprono nuovi mercati. Se dalla Slovenia in là un numero crescente di consumatori può permettersi d'acquistare il frigorifero, la lavatrice, il forno - purché a prezzi abbordabili - perchè continuare a produrli qui? E' più economico, e persino più ecologico (si evitano lunghi trasporti), costruirli nei paesi dove vengono venduti.
Per questa dura legge del mercato l'Electrolux cesserà la produzione di frigoriferi a Scandicci e licenzierà tutti i 450 dipendenti. Nel sito di Susegana, che conta 1.500 addetti, taglierà 330 addetti. Qui arriverà un terzo della produzione di Scandicci. Ciò nonostante i volumi produttivi di Susegana scenderanno dagli attuali 1 milione e 100 mila frigoriferi l'anno a 900 mila. Saranno frigoriferi sofisticati e carucci, sui mille euro l'uno. Quelli a basso valore aggiunto, sui 350 euro, si faranno in Ungheria. E da lì si importeranno, se qualche italiano «povero» vorrà comprarli. L'esempio rende l'idea del discrimine che taglia in due il settore degli elettrodomestici bianchi, sia del caldo che del freddo. Nei paesi ricchi conviene produrre le lavatrici da 7-8 chili di carico con incorporata l'asciugatrice, il frigorifero con megacongelatore, il piano cottura da incasso. Negli altri paesi si fanno elettrodomestici più semplici, non da incasso, come si si usavano vent'anni fa qui da noi.
Alla Antonio Merloni, azienda contoterzista da non confondere con la Indesit del fratello Vittorio in corsa per rilevare il comparto elettrodomestici del gigante General Electric, la cassa integrazione lievita a 580 addetti nello stabilimento di Fabriano. Si aggiungano altri 280 cassintegrati in Umbria. La Antonio Merloni ha 3 mila dipendenti in Italia e 5.500 nel mondo. In questo caso alla crisi di redditività di tutto il settore si somma la crisi del modello contoterzista (un'azienda produce senza marchio per altre aziende). Negli anni Sessanta questa formula è stato il tigre del motore dell'esportazione di elettrodomestici italiani nel mondo. Il modello contoterzista non è arrivato al capolinea, anch'esso deve spostarsi in altri paesi.
Il gruppo Candy, per fare un nome illustre che da noi è stato in passato sinonimo di lavatrice, ha 7 mila dipendenti e una decina di stabilimenti nel mondo. In Italia restano solo due siti produttivi (Brugherio e Lecco) e gli addetti sono meno di 2 mila. Nel 2006 Candy ha chiuso la Donora in provincia di Bergamo, nel 2007 la Gasfire a Erba. In parallelo, dopo aver acquisito la britannica Hoover, ha fatto shopping nel resto del mondo. In Russia ha acquistato la Vesta che a Kirov produce lavatrici con il marchio Vyatka. Nel Guandong ha incamerato la Jinling, terzo produttore cinese di lavabiancheria a asse verticale. In Turchia ha comprato la Doruk che con il marchio Süsler produce cucine, piani cottura, forni e stufe. La Candy, ancora di proprietà della famiglia Fumagalli, è diventata una piccola multinazionale «tascabile».
Nel quadro schizzato sopra non c'è molto di veramente nuovo. Cambiano i luoghi, ma la sostanza della storia è la stessa raccontata da Enrica Asquer (un'allieva dello storico Paul Ginsborg) in La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970), Carocci editore.
Gli elettrodomestici sono stati il volano del boom economico italiano del secondo dopoguerra. Il loro successo origina dalle indubbie doti imprenditoriali di alcuni uomini nuovi (Niso Fumagalli, Giovanni Borghi, Lino Zanussi) che seppero adattare al nostro paese ritrovati tecnici già in uso nei paesi anglossasoni e in Germania. Ma l'effetto del loro coraggio e della loro fantasia fu decuplicato dall'opportunità di godere dei «vantaggi dell'arretratezza» garantiti dall'Italia del tempo. Il più basso costo del lavoro in quello che allora era il Mercato comune europeo e un paese ricco più di manodopera che di capitali resero conveniente (e obbligatorio) utilizzare tanto lavoro e poche o nessuna tecnologia sofisticata. Ciò permise di sfornare elettrodomestici dignitosi a prezzi competitivi, alla portata delle tasche dei consumatori italiani. Alla metà degli anni Sessanta il segmento basso del mercato italiano costituiva oltre il 55% dei consumatori, contro il 2-5% di quello alto. In Germania quest'ultimo raggiungeva il 40%, quello basso era il 25%. Ignis, Candy, Zanussi presero due piccioni con un fava: fecero il pieno sia nel mercato interno che in quelli europei di fascia bassa. Le concorrenti europee, incapaci di vendere ai prezzi italiani, furono costrette ad accordi di «terzismo». Mettevano il loro marchio su elettrodomestici fabbricati in Italia. Gli elettrodomestici senza marca esportati dall'Italia crebbero dai 400 mila del 1964 ai 2 milioni del 1970. Sommando terzismo industriale e terzismo commerciale, si calcola che la quota complessiva dei prodotti senza marca arrivasse all'80% del totale degli elettrodomestici bianchi esportati.
Quale paese, tralasciando il gigante Cina che ha caratteristiche tutte sue, gioca oggi negli elettrodomestici il ruolo che fu dell'Italia? La Turchia? La Polonia? Qualche altro paese dell'Est? Difficile rispondere perché oggi tutto cambia e si sposta velocemente. La differenza fondamentale è che il boom nostrano fu opera di imprenditori italiani con (piccoli) capitali italiani. Ora i capitali (grandi e piccoli) viaggiano e si fermano ora qua or là dove più conviene.
P.S. Dopo il diritto di voto, la lavatrice è la più grande conquista delle donne. Quindi, nonostante sia scappata all'estero, grazie Candy.

 

Quale fu il ruolo delle donne in 100 anni di Cgil? Determinante più di quanto si pensi e si voglia

Cent'anni in prima fila Senza mai chiedere nulla per sé

Maria R. Calderoni
Cento anni e mai senza, la Cgil e le sue donne. Pallide, povere, fedeli, a volte invisibili, a volte ignorate o vittime, a volte trascinanti, ribelli, eroiche. Donne e sindacato, cento lunghi anni da raccontare (e magari riscoprire). Lavoratrici che, di volta in volta, a seconda delle diverse fasi della storia del paese - mondine, filandere, tabacchine, maestre, telegrafiste, impiegate postali, commesse, operaie elettromeccaniche, operaie conserviere, emigrate ed immigrate, lavoratrici del pubblico impiego, giovani precarie - da sempre hanno popolato il mondo del sindacato. Segnandone, spesso in modo "differente", la complessa, grande storia, specialmente per i tre filoni principali del protagonismo femminile: la parità salariale, i diritti in materia di gravidanza e maternità, il concetto di sussidiarietà del lavoro della donna.
Ultimi decenni dell'Ottocento, si può partire da lì, l'Italia giolittiana registra un nuovo sviluppo economico e profondi cambiamenti sociali,ma sul versante donna siamo al nulla: come rilevò già a suo tempo, fine secolo XIX, l'"emancipazionista" Anna Maria Mozzoni, «dopo l'Unità il genere femminile era rimasto privo di diritti politici, civili e sociali». Lavoratrici senza volto e senza status sia nelle campagne (dove sgobbavano come mezzadre, colone, braccianti) sia nell'industria, dove pure sono presenti nelle filande, nelle cartiere, nelle fabbriche di fiammiferi, nelle cave, nelle miniere, addirittura come manovali nell'edilizia.
L'emersione femminile è stata dura, appunto tutta in salita. Il "romanzo" delle donne lavoratrici lo racconta questo libro in due volumi appena pubblicato da Ediesse - Mondi femminili in cento anni di sindacato , a cura di Gloria Chianese (euro 40, pp. 996) , una bella cavalcata, a tratti avventurosa, anch'essa tutta dentro il sudato cammino dell'umanità verso liberazione e progresso.
Nel 1881 nasce, sotto la guida della già citata benemerita "emancipazionista" Anna Maria Mozzoni. la "Lega degli interessi femminili"; nel 1888 a Milano la prima Lega operaia femminile, la Società delle orlatrici.
Antiche e gloriose tabacchine, le proto-lavoratrici della statale Manifatture e Tabacchi, loro che nel 1887 ottennero le otto ore; nel 1904 la pensione; subito dopo il baliatico, una prima forma di asilo nido in fabbrica. Loro che proclamarono il primo sciopero nazionale.
E mitiche "piscinine", le quasi bambine dei laboratori di sartoria milanesi, loro che nel 1902 scioperarono perchè venisse regolamentato lo "scatolone", la pesante scatola con i capi di abbigliamento da portare a domicilio alle "sciure", le signore clienti.
Mai saputo niente di Argentina Altobelli? E' stata la prima donna a dirigere una Federazione sindacale, la Federbraccianti, anno 1906: quando le mondine di Molinella si ribellavano per non morire in risaia e le raccoglitrici di olive calabresi facevano lo sciopero del "cappuccio", rifiutando di continuare a portare al collo un sacco che pesava oltre 30 chili. Mentre loro, le postelegrafoniche, dovevano lottare perchè fosse eliminato l'obbligo del nubilato; e le maestre perchè cadessero le norme restrittive in base alle quali potevano insegnare solo nelle classi femminili e solo nelle prime due classi delle elementari (sic).
"Donna al telaio, marito senza guaio", è l'epopea delle lavoratrici tessili, un gran pezzo di storia patria: «il "lungo Ottocento" delle lavoratrici tessili tra manifattura domestica, protondustria e nuovo regime di fabbrica», così si intitola il primo capitolo a loro dedicato...
Nel 1880, secondo una inchiesta del tempo, non meno di 230 mila telai a mano erano presenti nelle abitazioni private, pressochè tutti azionati da donne. Ma con l'arrivo della meccanizzazione, le "filere", le filatrici a domicilio, sono destinate a scomparire, inevitabilmente e rapidamente risucchiate nelle prime "vere industrie" della seta, cotone, lana (principalmente nella zona di Biella).

L'immagine “https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Memoria%20storica/ledonnesonosempre.jpg” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.
Le donne come prime sfruttate dell'era industriale. E' infatti «ampiamente dimostrato dalla storiografia come alla base del primo importante sviluppo del capitalismo italiano ci sia stato un grande sfruttamento della manodopera femminile e minorile. Da questo punto di vista il settore tessile rappresenta la "culla dolorosa" del mondo del lavoro in Italia». Una relazione del 1872 denuncia ad esempio le condizioni delle "operaie in seta" della provincia di Como. Emerge «un quadro di orari massacranti (fino a 16 ore giornaliere), vitto insufficiente, alloggi fatiscenti, malattie mortali (tisi, scrofala, complicazioni uterine)».
Sono le laniere di Biella, le cotoniere di Milano e le setaiole di Como «a dare vita a tre lotte grandiose, entrate di diritto nella storia del movimento operaio». Nel 1910, sono le lavoratrici cotoniere in prima fila durante lo sciopero generale indetto dalla Camera del lavoro di Scafati (Salerno), lungo 134 giorni. Durante la Prima guerra mondiale, nel 1915, 40 mila tessili di Legnano, Busto Arsizio, Gallarate scioperano «per un supplemento di paga e due mesi di preavviso per la disdetta». E più tardi, nel 1919, durante il biennio rosso, anche le operaie tessili sono in campo: le sartine di Genova e Savona, le cappellaie di Milano, le operaie dei Cotonifici Mazzonis a Torino, delle Manifatture Cotoniere Meridionali in Campania.
Con l'avvento del fascismo, «il passaggio tra gli anni Venti e Trenta rappresentò per le lavoratrici il momento più drammatico». In particolare, nel settore tessile-abbigliamento, «le donne pagarono un prezzo molto alto in termini di occupazione, salari e condizioni di lavoro». Le squadracce hanno già distrutto tutto, Camere del lavoro, Leghe, Case del Popolo, ma le tessili combattono ancora. Nel 1927, sono loro a condurre l'87 per cento degli scioperi nel paese; nel gennaio del 1928, quella del Cotonificio Veneziano di Pordenone è l'astensione dal lavoro più lunga e compatta di tutto il settore tessile durante il fascismo: 3400 donne in sciopero per oltre un mese, con l'intervento diretto di Mussolini a provocare la serrata ad oltranza. E' la battaglia "dei telai", le donne che si battono contro l'aumento del carico di lavoro, quei telai a testa che da due passano a quattro, da quattro a sei (lo chiamavano taylorismo...).
Sebben che siamo donne. Nel 1942 le operaie della Manifattura Maglieria Milano di Reggio Emilia scioperano contro le direttive della direzione e del sindacato fascista; nel corso degli scioperi del 1943, quelli famosi concentrati nel triangolo industriale con alla testa gli operai delle grandi aziende metalmeccaniche, «non mancò l'apporto generoso delle maestranze tessili, circa 7 mila, che nella zona di Biella si astennero dal lavoro per dieci giorni, dal 22 aprile all'8 marzo». E' subito dopo la Liberazione che nasce la Fiot (Federazione italiana operai tessili), un grande sindacato che ha alla testa la comunista Teresa Noce, a quel tempo la dirigente più in vista della Cgil: come membro dell'Assemblea Costituente «promosse la battaglia per il definitivo riconoscimento di cittadine dopo un secolo di lotte e per il diritto ad essere lavoratrici».
No, non riuscirono a tenerci sotto, sebben che siamo donne.


Liberazione 10/06/2008

 


La politica di oggi ama definirsi bipartisan e dialogante

 

Tonino Bucci


La politica di oggi ama definirsi bipartisan e dialogante. L'Italia delle istituzioni appare un paese soft . Nei palazzi del potere si scrivono le leggi tutti assieme. Maggioranza e minoranza vanno di comune accordo e finalmente (per loro) il parlamento è stato "semplificato" (eufemismo per dire che non c'è più la sinistra rompiscatole). Il governo di centrodestra tira diritto per la sua strada ma senza scontri frontali. E lancia messaggi di moderatismo e concordia.
Eppure la società ci rinvia un'immagine di segno opposto, quella di un'Italia hard , di un paese percorso nelle sue tante periferie da spiriti animali. Dalle città giungono notizie in sequenza di aggressioni, pogrom e caccia allo straniero in pieno stile neofascista. La società con i suoi processi di disgregazione, con le sue paure e le sue pulsioni violente, è pervasa da una cultura di destra che è divenuta ormai senso comune da bar.
C'è contraddizione fra il moderatismo della politica e le pulsioni viscerali del paese? In superficie forse sì. Il protagonismo aggressivo di formazioni di estrema destra come Forza Nuova - o dello squadrismo spontaneo che comunque ha interiorizzato i tratti culturali del fascismo - sono un ostacolo per la destra di governo, certo. Ma osservate in profondità quelle due Italie sono figlie l'una dell'altra. Sono il frutto di un corto circuito fra una politica di destra, padronale e securitaria, da un lato, e il populismo xenofobo di cui la prima ha bisogno per camminare e prosperare, dall'altro. C'è da farsi poche illusioni sul presunto moderatismo della destra di governo. Anche per quel che essa sta facendo nella cultura di questo paese.
Prendiamo l'esempio della toponomastica come la intende il neosindaco di Roma Alemanno. Nulla di più innocuo in apparenza. In fondo, dedicare una via ad Almirante e una a Berlinguer, una a Craxi e un'altra pure a Fanfani, sembrerebbe un gesto bipartisan, un segno di pacificazione fra tutte le storie politiche italiane. Ma dietro il linguaggio rassicurante della politica della destra si nasconde un estremismo minaccioso per la convivenza civile. Siamo di fronte a una gigantesca operazione sulla memoria storica: riaccreditare la storia del fascismo italiano nell'alveo delle culture politiche legittime e smantellare nel senso comune del paese quel che resta della cultura resistenziale e dei principi della Costituzione. Enzo Collotti non è certo tra coloro che ne sottovalutano la portata. C'è da credergli vista la sua lunga esperienza da storico della Resistenza e dei fascismi in Europa.

Lo spirito bipartisan nella toponomastica sembra innocuo. Ma non è la spia del pericoloso "sovversivismo" che si annida dietro il finto moderatismo?
Questo è il vero pericolo. E' un'operazione molto sottile tesa a far passare come "normali" cose che non lo sono affatto. Qui si finisce per legittimare la storia del fascismo italiano.

Giornali e tv hanno la loro parte di responsabilità nel modo in cui si occupano di storia?
Nei media prevale un comportamento superficiale verso l'informazione sui temi storici. E siccome viviamo in un clima orrendo…

Ma si possono mettere sullo stesso piano Almirante, Berlinguer, Craxi e Fanfani?
Basterebbe ricordare la biografia delle persone. Io non ho nessuna simpatia per Craxi ma non trovo giusto che venga messo assieme ad Almirante. Sono due storie diverse. Questa è la confusione delle lingue, una Babele storica dove magari Almirante fa bella figura accanto a un componente del Cln. Sono considerazioni che possono indurre alla malinconia, ma questi sono i temi sui quali oggi bisogna condurre una battaglia. Non è possibile fare finta di nulla. Il giorno che si accetta via Almirante, si è accettato il fascismo. Lo si legittima come una delle tante forze politiche e si rinuncia alla critica.

Ma qual è il rischio di questa operazione sul piano della memoria storica pubblica?
Di perdere la consapevolezza storica delle differenze fra il fascismo e le altre epoche della storia italiana. Queste sono battaglie di principio fondamentali.

In certe trasmissioni compaiono personaggi alla Alessandra Mussolini, alla Borghezio, alla Stefano Fiore e via via fino alla vedova Almirante. E' solo folclore?
E' questo il punto nevralgico. Tutti vengono legittimati, ognuno ha diritto a dire la sua in nome di una regola bipartisan che mette nello stesso calderone fascisti, leghisti e via dicendo. Passa anche per i salotti televisivi l'operazione di accreditamento di questi personaggi e della loro cultura politica. Ci siamo dimenticati che esiste ancora il reato di apologia del fascismo? Perché nessuno lo ricorda? Se continua così il sindaco Alemanno fa apologia di fascismo.

Però va a rendere omaggio alle vittime delle Fosse ardeatine e si presenta come il sindaco di tutti...
Sì, ma non fa altro che contrabbandare, attraverso una serie di operazioni manipolatorie, una merce che, in fin dei conti, si chiama fascismo. Quelle sono le sue origini. E' inutile cercare di abbellire la situazione.

Ma la sinistra che fa?
La sinistra ne ha tante di responsabilità. Ha commesso un grandissimo errore culturale nel giudicare l'antifascismo uno strumento obsoleto e superato.

Le sembra corretto vedere nelle recenti aggressioni semplici atti di violenza generica e non atti politici a sfondo fascista?
Se non si vede la matrice politica non se ne esce più. Speriamo che non continuino a fare discorsi astratti sulla violenza. Bisogna individuare le radici di questa violenza. Queste aggressioni non esisterebbero se non ci fosse alle spalle una matrice politica.

Il neofascismo si presenta come un innocuo discorso da bar…
Si dice che le violenze di Roma appartengono alla matrice della xenofobia. Ma cos'è questa se non un aspetto della cultura dell'estrema destra? Qui c'è un tentativo di manipolare l'opinione pubblica. Non possiamo girare la testa dall'altra parte.

I tempi del bon ton e dell'equilibrio bipartisan sono finiti. Ma cosa significa fare battaglia culturale?
Non vuol dire fare la guerra agli altri. Significa non consentire che gli altri manipolino l'opinione pubblica e che nei loro atti apparentemente innocui nascondano certe radici politiche identificabili nel fascismo e nella sua storia. Altrimenti perdiamo il senso della nostra convivenza e non capiamo neppure perché difendiamo ancora questa Costituzione.

L'antifascismo deve ridiventare una memoria pubblica. Ma come?
Ci sono intere fasce giovanili che di tutta la nostra storia non sanno assolutamente niente. Se noi permettiamo che si perda il filo della memoria saremmo davvero autolesionisti. Non solo, saremmo anche responsabili per un paese che non sa più quali sono la sua identità e le sue radici. E' l'antifascismo che garantisce la convivenza. Con questi signori che hanno stravinto le elezioni altro che pacificazione! Si comportano da vendicatori. Non si può stare a guardare per quieto vivere o per buona educazione tollerare che questi facciano piazza pulita di sessanta anni di lavoro culturale. E' chiaro che abbiamo difeso male la storia dell'Italia repubblicana e antifascista. Come meravigliarsi che Pansa venda un milione di copie dei suoi libri?

Certi libri vanno stroncati sul piano storiografico, certo, ma la loro forza sta nel saldarsi con i luoghi comuni, i clichè e le opinioni alla moda. Come si disarticola questo blocco?
In un paese in cui si dice che si legge poco, bisogna interrogarsi come mai un autore venda un milione di copie. Perché il pubblico italiano legge solo queste cose, posto che le legga davvero dalla prima all'ultima pagina? Perché questo discorso diventa senso comune e altri discorsi più importanti e più fondati no? Queste domande attengono alla media della cultura politica del paese.

La disfatta elettorale della sinistra non è anche figlia di questo sfacelo culturale dell'antifascismo?
L'elettorato non si riconosce più in un patrimonio culturale e ideale. Si è interrotto il filo nato dalla Resistenza e dalla Costituzione. Questo comune patrimonio rappresenta un tessuto connettivo del quale la sinistra non può fare a meno. Se non si tiene presente questo, non si può fare nessuna battaglia culturale. Altrimenti tutto passa, tutto viene accettato. Anche operazioni in apparenza innocue come la dedica di una via a un esponente politico del neofascismo, sono fatti importanti perché creano un legame di identificazione nelle persone che abitano in quel territorio. Che esempio tramandiamo?


Liberazione 04/06/2008

 

Sinistra quanti sbagli, hai mumificato la Resistenza

Vittorio Bonanni


Il triangolo rosso, la violenza postliberazione in Emilia fatta di vendette ed esecuzioni sommarie, la delegittimazione dunque di quella lotta che sta invece alla base della nostra repubblica e quindi dell'antifascismo. Tutti questi elementi sono all'origine del lento e inesorabile smantellamento del "mito" della Resistenza, che proprio in Emilia Romagna, e in particolare a Reggio, aveva conosciuto i momenti più epici e forgiato l'identità della regione. Quei fatti, lungi dall'essere oggetto di indagine storiografica, sono invece stati usati in chiave politica. Basti pensare al "Chi sa parli" del 1990 di matrice craxista che diede la stura ad una vulgata storica che ha conosciuto la sua punta di diamante nei lavori di Giampaolo Pansa, in particolare Il sangue dei vinti . Chi ha cercato di vederci chiaro negli avvenimenti drammatici di quegli anni - 1945-46 - restituendo loro una dignità storica è Massimo Storchi, storico e responsabile del polo archivistico del comune di Reggio Emilia, che nel suo libro Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-46) (Aliberti editore, pp. 286, euro 16), senza tralasciare le vendette sommarie messe in atto da ex-partigiani, punta l'indice contro la mancanza di giustizia nei riguardi dei crimini fascisti e fa risalire proprio a questo peccato originale l'incapacità della repubblica italiana di trovare un'identità abbastanza forte da resistere alle sfide del tempo.

 

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Proprio lo smantellamento della memoria legata alla Resistenza in Emilia Romagna ha dato il via ad una progressiva rimozione di quell'atto fondativo della nostra repubblica che ha portato poi all'attuale scenario, dove una destra aggressiva e all'attacco sta mettendo le altre forze politiche in un angolo...
Questo smantellamento della memoria, come lo chiama lei, deve essere suddiviso in due parti. La prima riguarda innanzitutto ciò che hanno fatto gli ex nemici, e cioè i post-fascisti, i neo-fascisti o i fascisti tout-court, a seconda di come li vogliamo chiamare. Hanno sempre avuto un comportamento molto lineare e hanno sempre difeso la loro storia. Di fronte a questo ciò che è venuto meno, ed è il secondo punto, è l'antifascismo, come ha detto con grande chiarezza il saggio di Luzzatto di qualche anno fa. Ed è venuto meno sia perché la Resistenza è stata mummificata ed è stata trasformata in una cosa così poco appetibile dai giovanissimi, sia perché, trasformandola in qualcosa che doveva andare bene a tutti, è stata svuotata anche dei contrasti, presentandola come un'esperienza realizzata da eroi bellissimi e biondi. In realtà è stato un episodio del 900 italiano fatto da uomini in cui, come in tutte le guerre e i momenti di crisi, non sono certo mancate le contraddizioni.

Restano però i principii...
Che è ciò che io sostengo sempre quando vado a parlare nelle scuole. Bisogna rendersi conto, dico agli studenti, di una cosa molto chiara: da una parte c'era Auschwitz e dall'altra parte c'era chi combatteva contro quel progetto. A parte dunque i principii la Resistenza resta un fenomeno storico che va analizzato con gli strumenti della ricerca storiografica, nel bene e nel male. Come dicevo, la colpa dell'antifascismo è di aver accettata questa museificazione, che ha le radici nella "guerra fredda", e di aver scelto il silenzio su tutta una serie di vicende che poi sono state usate strumentalmente. Quelle uccisioni del dopoguerra andavano raccontate da noi, perché facevano parte di quella storia, difficile e contraddittoria. Ci sono state insomma delle omissioni, poi si può valutare se in buona fede o meno. Anche la storia che racconto nel mio penultimo libro, Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani. La storia di "Azor" , sull'uccisione di questo comandante partigiano, andava certamente raccontata prima. Capisco la difficoltà di portare alla luce certe vicende durante la contrapposizione est-ovest ma arrivati agli anni '80 o '90 continuare a tenere sotto silenzio determinati episodi è stato soltanto autolesionistico perché gli altri non aspettavano altro di poter accedere a quella serie di cliché composta dagli eccidi, dal mistero, dal complotto, dalla rivoluzione bolscevica e via dicendo. Per queste ragioni la Resistenza non è mai diventato un oggetto storiografico ma è sempre stato un oggetto politico. Usato a seconda dei periodi, la resistenza tradita, la resistenza rossa, quella bianca, ma sempre strumentalmente per colpire l'avversario di turno.

Lei sostiene che nel 1989 i comunisti italiani furono incapaci di «aprire una riflessione a tutto campo, in termini non solo storici ma culturali» e scontarono in pieno la crisi dell'antifascismo. Insomma, invece di parlare dei "ragazzi di Salò", come fece Violante, come avrebbero dovuto agire?
Che mi sembra abbia espresso, Violante, il suo assenso ad una via intitolata ad Almirante. Tutto questo comunque testimonia di una perdurante "confusione". Io non credo che gli storici siano i più indicati nel presentare linee politiche, per l'amor di dio. Però certamente il fatto che dopo l'89 si è semplicemente volta dopo volta assunto o imitato vari modelli, dagli ecologisti, a Blair o a Clinton, pur di non fermarsi un attimo e dire «noi chi siamo, che cosa abbiamo fatto, della nostra storia, e anche di questo antifascismo che cosa dobbiamo tenere e cosa invece è giusto abbandonare?». Questa riflessione non è mai stata fatta semplicemente per mantenere il potere e conservare gli stessi medesimi gruppi dirigenti. E come quel personaggio del film di Woody Allen Zelig che a forza di voler imitare gli altri non sa più quale sia la propria identità. Non c'è stata insomma una riflessione e progressivamente anche la Resistenza è diventata un peso, una cosa un po' noiosa, perché bisognava essere un partito moderno, ma sempre imitando gli altri. Recentemente sull' Espresso è stato pubblicato un bell'intervento di Piero Ignazi che parla proprio della trionfante koiné della destra. Per tanto tempo si è parlato di un'egemonia culturale della sinistra, ma negli ultimi quindici anni ha preso corpo un'egemonia culturale della destra. E su quei modelli la sinistra arranca, cerca di imitare, cerca di stargli dietro, ma, come si suol dire, è sempre meglio l'originale che la copia e la gente infatti sceglie l'originale.

Come si può contrapporre questa deriva che ha portata alla nascita di quella che lei definisce "asimmetria della memoria"?
Si deve partire dalla scuola e dalla cultura in generale dando importanza a questi temi e anche mettendo a disposizione delle risorse. E dobbiamo agire sempre con la convinzione che siamo già nella fase successiva alla vittoria del berlusconismo. Non dobbiamo pensare di contrastarlo perché ha già vinto e quindi ora sta a noi vedere che cosa possiamo fare. Noi a Reggio ogni anno organizziamo i viaggi della memoria, come ha fatto Veltroni a Roma. Ma nella nostra città, dove non abbiamo la popolazione scolastica di Roma, ogni anno andiamo con 600 studenti. Ad Auschwitz, a Dachau, a Buchenwald. Ma non è soltanto il viaggio puro e semplice, c'è tutta la preparazione prima, per mesi con gli studenti ne parliamo insieme agli storici e agli insegnanti. Con loro si costruisce un percorso, ci si prepara, si fa il viaggio, si torna a casa, si lavora sui materiali, si fanno work-shop, libri, video. Un progetto che coinvolge 600 studenti e dunque almeno 1200 genitori che entrano in questo circuito di conoscenza.

Tutto questo ragionamento non può non collegarsi con i fatti inquietanti di questi ultimi giorni e settimane, dall'omicidio di Verona alla recente aggressione squadristica alla Sapienza, passando per l'incendio ai campi rom e alla spedizione punitiva al Pigneto di Roma. Come possiamo ridare forza, a questo punto, ad un sentimento come quello dell'antifascismo?
Bisogna ricordare che l'antifascismo in Europa è ancora molto sentito, è un grosso valore. In Germania ci guardano come matti quando sanno che uno come Ciarrapico esterna le sue simpatie per il fascismo e viene pure eletto in parlamento. Da noi, dicono i tedeschi, uno come lui lo carceriamo subito. Non arriva neanche alla tv. Mentre in Italia un'organizzazione come Forza Nuova viene considerato come il Rotary Club e l'aggressione all'università non ci fa né caldo né freddo. Questo per dire che i valori dell'antifascismo hanno costruito l'Europa e non è un fatto che riguarda solo noi. Il vecchio continente nasce sul concetto "mai più una guerra tra di noi" e appunto sull'antifascismo. Poi noi abbiamo avuto la fortuna che l'antifascismo ha fortemente influenzato la nostra Costituzione e quindi se non vogliamo più parlare di antifascismo applichiamo almeno la Costituzione. Ma seriamente, cercando di colmare così la carenza etica di questa nostra fase storica. Basti pensare che la nostra, e credo proprio di non sbagliarmi, è la sola nel mondo dove l'articolo 1 parla del valore del lavoro, il quale è stato uno dei tanti frutti dell'antifascismo.

Liberazione 04/06/2008 

 

Accordo per bandire le cluster bombs, Firmano tutti (tranne i soliti noti)

Londra: «Pronti a distruggere tutte le bombe a grappolo».

Oggi in Irlanda l'intesa. Senza Usa, Russia, Cina, India, Pakistan e Israele

 

Francesca Marretta
Londra
Raggiunto a Dublino l'accordo che mette al bando le "cluster bombs", le bombe a grappolo. armi terribili il cui uso è ora ufficialmente definito «moralmente inaccettabile». Il dibattito alla Conferenza internazionale per la messa la bando delle cluster bomb, che per dieci giorni ha tenuto impegnati delegati da centonove paesi, Ong, organizzazioni per la difesa dei diritti umani e che ha avuto come "testimonial" vittime mutilate e sfigurate dalle cluster bomb, ha portato alla redazione del testo finale della Convenzione che impegnerà i firmatari a cessare definitivamente l'uso, la produzione, la vendita e l'immagazzinaggio di questo tipo di armi. La Convenzione sará firmata il 2 e 3 dicembre prossimi a Oslo, in Norvegia. Perchè diventi operativa, sarà necessaria la ratifica di ogni singolo paese.
Si tratta di un accordo storico, il piú importante dopo quello di Ottawa che dieci anni fa mise al bando le mine anti-persona. Che tuttavia resta per ora un'anatra zoppa. Mancano infatti all'appello dei partecipanti alla Conferenza di Dublino gli Stati Uniti, la Russia, Israele, Cina, India e Pakistan. Paesi che non solo fanno ampio uso delle cluster bomb, ma le producono direttamente. Il fatto che a Dublino sia stato raggiunto un accordo votato da 109 paesi potrebbe costringere il blocco del "boicottaggio" a smettere di utilizzare di fatto le cluster bomb, esattamente com'é avvenuto per il trattato che ha bandito le mine, non firmato da Stati Uniti, Russia, Cina e Israele, che non hanno fatto più di tali armi una volta che il trattato che le vietava ha assunto efficacia.
Il testo passato a Dublino è risultato rafforzato dal cambiamento della posizione del Regno Unito, che, insieme ad altri paesi, all'inizio della Conferenza aveva spinto per una serie di "condizioni" alla messa al bando totale di queste armi, facendo differenza tra cluster bomb "avanzate" e di vecchio tipo e ponendo il problema delle operazioni congiunte con Paesi alleati.
Nonostante le forti pressioni esercitate da Washington su Londra per mantenere l'uso parziale delle cluster bomb dell'arsenale britannico, mercoledí sera, il Premier britannico Brown ha annunciato, prendendo una posizione assolutamente inattesa, che «per dare il buon esempio» la Gran Bretagna, avrebbe messo «fuori servizio tutte le cluster conservate nei propri arsenali». Simon Conway, portavoce della Ong Cluster Munition Coalition (Cmc), tra le principali organizzazioni sostenitrici della messa al bando delle cluster bomb, ha affermato che la posizione di Brown è risultata determinante ai fini dell'accordo. Il governo britannico vieterá inoltre agli Usa di tenere cluster bomb nelle loro basi militari sul territorio del Regno. Una mossa, quella di Brown, che risponde alle istanze di un elettorato laburista britannico frustrato da anni di politiche filo-americane e guerrafondaie dell'era Blair, che ha punito Brown alle recenti chiamate alle urne, sia in occasione delle elezioni amministrative che nelle suppletive politiche. Restano da ora da sbrogliare le questioni pratiche. Il trattato prevede in determinate circostanze delle deroghe che permettono ai paesi aderenti di svolgere operazioni internazionali accanto a paesi che non hanno partecipato al negoziato. Per Usa e Gran Bretagna le operazioni militari sul terreno congiunte in paesi come l'Iraq e l'Afghanistan sono all'ordine del giorno.
La posizione ufficiale degli Stati Uniti sull'esito della Conferenza, riassunta in un comunicato del Pentagono, esprime «condivisione dei temi umanitari sollevati a Dublino», ma, dice in sostanza Washington, le cluster bomb sono efficaci e la loro eliminazione dall'arsenale Usa metterebbe a rischio la vita dei soldati americani.
Secondo dati delle Nazioni Unite, negli ultimi trent'anni, sono morte o rimaste mutilate da cluster bomb oltre 13mila persone. Uno studio dell'organizzazione umanitaria Handicap International afferma che ogni giorno avviene da qualche parte del pianeta almeno un'esplosione provocata da bombe a grappolo. Le vittime sono quasi esclusivamente civili (98%), un quarto delle quali bambini. Le Cluster bomb, impiegabili sia dall'artiglieria che dall'aviazione, sono progettate per dividersi in volo ed esplodere all'impatto al suolo. Contengono fino a settecento proiettili esplosivi detti bomblets, scagliati per un raggio di diverse centinaia di metri. Fino al 40% di tali ordigni, utilizzati in almeno ventidue paesi, possono restare inesplosi, trasformandosi in una mine capaci di uccidere e mutilare per diversi anni.
I paesi che hanno sottoscritto l'accordo avranno otto anni di tempo per smettere di costruire, stoccare, commercializzare queste bombe e per distruggere gli arsenali. Anni a venire in cui vedremo ancora bambini raccogliere quelle che sembrano palline da tennis e restare mutilati o uccisi. L'accordo di Dublino segna comunque, come ha sottolineato il coordinatore della Cluster Munition Coalition (Cmc) «una vittoria per l'umanità», perché finalmente le bombe a grappolo «verranno consegnate alla pattumiera della storia».


Liberazione 30/05/2008

 

Un'alleanza di volenterosi

 

Stefano Bocconetti
Un'alleanza di volenterosi. Come quella dell'Iraq. Una coalizione armata, capace di inventarsi e di imporre proprie leggi internazionali. Un esercito. Di soldati e di mercenari. Sì mercenari, nel vero senso della parola: che non hanno una divisa conosciuta ma sono pagati per partecipare a questa guerra. Per fare gli interessi di chi li paga. Proprio come in Iraq. Solo che qui, l'esercito dei volenterosi non ce l'ha con Saddam o Al Qaeda. Ce l'ha con un centinaio di milioni di persone. Quante - si stima - siano quelle che si scaricano musica e film dalla rete. Lì era una guerra per il petrolio, qui la fanno a difesa del copyright.
Le analogie, comunque, ci sono tutte. Vediamo. Da qualche giorno la rete ha svelato cosa c'è dietro il «progetto Acta». Acronimo che sta per Anti-Counterfeiting Trade Agreement, accordo internazionale contro le falsificazioni. Una sorta di Wto antipirateria. Ci stanno lavorando da tempo diverse nazioni. L'America, innanzitutto. Ma anche la Svizzera (potrà sembrare strano ma il paese alpino è uno dei più ricchi dal punto di vista dei diritti di autore, possiede uno dei più "gonfi" portafogli di brevetti), la Corea, il Giappone, il Messico, la Nuova Zelanda. E soprattutto la Commissione europea. Una coalizione di volenterosi.
Volenterosi e ambiziosi. Nei loro piani - avanzatissimi - c'è il progetto di riscrivere daccapo tutte le regole a tutela del copyright. Di riscriverle in modo che siano uguali per tutti, da tutti e due i lati dell'Oceano. Riscriverle come piacciono ai detentori dei diritti di autore. E sono regole che fino ad ora nessun paese occidentale ha mai conosciuto. Per cominciare, la violazione del copyright dovrebbe diventare reato. Reato penale. Anche se il "colpevole" non ci guadagna una lira. Anche se, insomma, lo fa per hobby, per passione, per necessità di studio. Anche se lo fa perché pensa che la cultura, il sapere siano beni a disposizione di tutti. Le nuovi leggi internazionali, invece, non faranno differenze. Chi copia qualcosa per sé, per gli amici, chi si prende dalla rete un campione musicale per rielaborarlo, chi si prende una foto per arricchire il proprio blog finirà in carcere. Come chi lo fa solo per arricchirsi. Senza distinzioni.
Già, ma chi scoprirà le violazione a questa nuova normativa internazionale? Ed ecco il capitolo «mercenari». L'Acta prevede la costituzione di una nuova «forza di controllo internazionale». Coordinerà la polizia dei paesi aderenti: quindi praticamente coordinerà la polizia di tutto il mondo. Ma non basta: perché agli agenti e agli investigatori pubblici saranno affiancati da «personale privato». Ci sarà, insomma, anche la polizia privata, ci saranno le ronde on line. Le ronde virtuali. Organizzate, pagate da Microsoft, dalla Sony e dalle major che presidieranno il «territorio telematico» alla caccia di chi vuole ascoltare una canzone o vedere un film senza pagare. Queste nuove squadre miste - pubbliche e private - praticamente non avranno limiti. Potranno sorvegliare, valutare quel che accade, cercare, e, alla fine, anche sequestrare materiale. Quando saranno davanti ad un reato ma anche quando sospetteranno che in un sito c'è qualche «movimento strano». Basterà il sospetto, insomma, perché queste squadre possano intervenire e perquisire. Anche, in assenza di un capo di imputazione.
E ancora. Quando e se verrà firmato, l'Acta prevede un capitolo a parte tutto dedicato alla rete. Con un paragrafo che l'Europa, fino al mese scorso, aveva esplicitamente rifiutato. Riguarda il ruolo dei provider. Le aziende che forniscono la connessione, quelle attraverso cui si accede ad Internet. D'ora in poi, Tim, Tiscali, Mclink, eccetera, eccetera diventeranno, volenti o nolenti, collaboratori di polizia. Dovranno inventarsi, a loro spese, «filtri» per impedire lo scambio di file, filtri che blocchino il «p2p». Di più: dovranno fornire, a chi lo richieda - siano agenti di polizia o investigatori privati - i dati dei loro utenti. Dei loro utenti sospettati.
E non è ancora tutto. C'è dell'altro che cancella due secoli di storia del diritto. Per capire (e si ritorna a parlare del nuovo accordo internazionale sul copyright, non più solo della rete): è prevista una misura, in base alla quale si può chiedere l'attivazione di interventi straordinari se si teme che qualcosa possa ledere il proprio diritto d'autore. Un esempio spiega meglio. Assurdo, così nessuno se la prende: i membri dei Tokyo Hotel, gruppo pop per teenager che si tiene alla larga da tutto ciò che sa di impegno e di originalità, pensano che una loro canzone sia stata copiata dai Negroamaro. A quel punto possono chiedere che il disco della band italiana sia bloccato alla frontiera con la Germania (sì, perché nonostante il nome i Tokyo Hotel sono tedeschi). In attesa che un organismo internazionale risolva la querelle.
E, infine, l'ultima norma. Quella che sancisce definitivamente la fine della legislazione sulla materia così come l'abbiamo conosciuta. Almeno in questo nostro vecchio continente. D'ora in poi il reato di violazione di copyright non sarà perseguito solo su denuncia del proprietario dei diritti. Come prevede la nostra legge. Si procederà d'ufficio, basteranno le indagini di questi nuovi investigatori, un po' Montalbano, un po' Tom Ponzi.
Ecco cosa ci aspetta. Da qui a breve. Tutto fa capire, infatti, che il testo dell'Acta sarà ratificato al prossimo summit del G8. In programma fra meno di due mesi, a luglio. Paure eccessive? Le notizie, dettagliate, circolano da qualche giorno in rete. Con un elemento in più, però. Che a fornirle per primo è stato il sito di Wikileaks . Non è un nome qualsiasi, non si tratta di semplici pagine Web. E' qualcosa che significa molto per la rete. E' il sito politicamente scorretto per definizione. E' quello che ha scoperto che il governo americano aveva modificato alcune voci dell'enciclopedia Wikipedia perché considerate troppo critiche. E' il sito che ha raccontato per filo e per segno le truffe di Scientology, è il sito che ha "spiato" ovunque. Arrivando a denunciare lo Stato della Baviera, scoprendo che la polizia tedesca di Monaco aveva messo in piedi un sistema per monitorare illegalmente le telefonate che avvenivano su Skype. Un sito che è stato chiuso, due mesi fa, su ordine dei giudici californiani. A cui si era rivolta una banca, una banca svizzera infuriata perché su quelle pagine on line era stata indicata come protagonista di un vasto giro di riciclaggio di denaro sporco. Il sito è stato poi riaperto, la banca svizzera è finita sotto inchiesta. Ancora. E' il sito che non ha avuto timore di portare sul banco degli imputati - banco «virtuale», naturalmente - anche Wikipedia. Cosa che, naturalmente, ha fatto irritiare tutti i liberal del mondo, a cominciare da quelli americani. Invece, la comunità legata al sito di cui si parla, con un'indagine certosina, è venuta a scoprire che la Wikimedia Foundation , l'associazione che controlla l'enciclopedia libera più diffusa al mondo, in realtà adotta gli stessi metodi di tutti. Censura, insomma. Arrivando a cancellare dall'archivio di Wikipedia, la voce dedicata alla signora Barbara Bauer. Potente, potentissima «agente letterario» negli Stati Uniti, capace di decretare il successo - o il naufragio - di qualsiasi iniziativa editoriale. Su carta o su Web. Una signora che ha, per tante vie, «agganci» importanti con la fondazione Wikimedia . E ai suoi amici si è rivolta per protestare quando sull'enciclopedia on line ha scoperto che alla sua voce c'era una piccola biografia non proprio tenera verso le sue gesta ed il suo ruolo. Pochi giorni dopo le sue lamentele, la voce Barbara Bauer è stata prima cancellata e poi riscritta.
Questo è stata ed è il sito Wikileaks . Ma non è detto che duri. L'Acta potrebbe essere solo la prima mossa della «coalizione». Prima o poi i «volenterosi» se la prenderanno con chi scrive pagine in libertà. Come è già successo con l'altra coalizione di «volenterosi».


Liberazione 30/05/2008

 

Download Day 2008

 

www.rifondazione.it/wp/05/?cat=5

 

1) DOCUMENTO “Rifondazione Comunista in Movimento” (primo firmatario Acerbo);

documento_acerbo.pdf (448,6 kB) - www.rifondazioneinmovimento.it

 

2) DOCUMENTO “Disarmiamoci: liberi/e, pacifici/che per un congresso di discontinuità e radicalità” (primo firmatario De Cesaris); 

documento_decesaris.pdf (118,1 kB) - www.disarmareinnovarerifondazione.org

 

3) DOCUMENTO “Una svolta operaia per una nuova Rifondazione comunista” (primo firmatario Bellotti);

documento_bellotti.pdf (315,8 kB) - www.marxismo.net

 

4) DOCUMENTO “Dall’appello di Firenze alla mozione dei 100 Circoli” (primo firmatario Pegolo);

documento_pegolo.pdf (80,7 kB) - www.lernesto.it

 

5) DOCUMENTO “Manifesto per la Rifondazione” (primo firmatario Vendola).

documento_vendola.pdf (116,9 kB) - www.manifestoperlarifondazione.net

 

 

 

www.rifondazioneinmovimento.org

 

 

Un soggetto comunista autonomo per un rilancio più generale della sinistra nel nostro Paese  

di Marco Amagliani, Assessore Regione Marche, Comitato politico nazionale


Quello che stiamo vivendo è sicuramente il momento più difficile, la crisi più seria e profonda che Rifondazione comunista si trova a vivere dalla sua nascita. Le difficoltà sono certamente dettate da una sconfitta elettorale senza precedenti, che ha determinato la totale assenza dal Parlamento di una soggettività comunista con tutto ciò che ne consegue. Ma sono dettate, soprattutto, dal fatto che quella comunità che con grande difficoltà ma con altrettanto entusiasmo avevamo costituito a partire dal 3 febbraio del '91, in occasione dell'ultimo congresso del Pci di Rimini, non è più tale. Sembra di poter dire che al di là delle differenze politiche, ovviamente legittime, quando le stesse si riferiscono ad un identico sbocco finale, la fase attuale si caratterizza come il tentativo di rapportarsi con il corpo militante del partito attraverso un messaggio, espresso attraverso la presentazione di mozioni congressuali, tutto teso a carpire un consenso (utilizzando il metodo ambiguo della negazione della volontà di mettere in discussione la soggettività e l'autonomia di un soggetto comunista in questo Paese), da utilizzare per conseguire uno scopo diverso se non opposto da quello dichiarato.

Affermo ciò in considerazione di quel che ho visto e sentito in occasione degli ultimi due Cpn ed in particolare delle riunioni della Commissione politica per il Congresso. L'attuale maggioranza determinatasi nel partito (Grassi - Ferrero - Mantovani) ha proposto a più riprese di verificare la possibilità di costruire un documento a tesi, che fissasse un impianto generale sulla falsariga delle conclusioni della Conferenza di Carrara e all'interno del quale ognuno potesse portare il proprio contributo di riflessione e di idee, in consonanza con una fase politica che non può che essere caratterizzata dalla ricerca sul "che fare" senza prescindere da un'analisi seria sulle trasformazioni della nostra società.

Si è detto, da parte dei compagni che oggi s'identificano nella mozione del compagno Vendola, e non solo, che non esistono le condizioni per uno sbocco di questo tipo.

E' evidente che non vi sono margini di compromesso tra chi, come la mozione Vendola e tutta quella parte dell'ex gruppo dirigente facente riferimento al compagno Bertinotti, si dà come disegno strategico la Costituente per un nuovo soggetto della Sinistra e chi al contrario (Grassi - Ferrero) chiede per l'oggi e per il domani il mantenimento di un soggetto comunista autonomo quale è Rifondazione comunista.

Per altro, tale differenza strategica
ha caratterizzato tutta la campagna elettorale, evidentemente concausa della cocente sconfitta subita.
Cosa stavano a significare le frasi pronunciate da autorevoli dirigenti del nostro partito, quali Bertinotti, Giordano, Gianni ed altri, se non il superamento o lo scioglimento (che sono esattamente la stessa cosa) del nostro partito?

Si è parlato di "comunismo come tendenza culturale", di "superamento del soggetto unitario e plurale e creazione del soggetto unico della sinistra", di "scelta irreversibile"; si è detto che si sarebbe "andati avanti con chi ci stava".

Anche nelle ore
immediatamente successive al risultato elettorale si è riproposta la stessa linea, sino a dire chiaramente in commissione politica che se la Sinistra Arcobaleno avesse raggiunto l'8% dei consensi (peraltro circa 4 punti in meno dei partiti che la componevano) sarebbe stato inevitabile lo scioglimento di Rifondazione comunista.

Se ciò che dico risponde
a verità, non posso che chiedere a tutti rispetto tra di noi. Proposte chiare, piattaforme politiche altrettanto chiare! La parola alle compagne ed ai compagni dei circoli, ma per favore basta con questo disgustoso camaleontismo.

Già la proclamazione
del compagno Vendola a futuro segretario del nostro partito dà un'immagine dello stesso che è profondamente diversa da quella che a larghissima maggioranza avevamo prefigurato a Carrara. Ma ognuno è responsabile delle proprie azioni.

La si smetta di giocare ambiguamente con le parole a scapito della nostra comunità Partito; si rispettino tutte e tutti coloro che magari nella vita hanno avuto meno capacità materiali ed intellettuali per definire il proprio essere comunista che in ogni caso per queste idee hanno speso tutto se stessi. Dire, come si dice a pagina 10 del documento Vendola, «Noi, tutti noi, siamo chiamati, in questo congresso, al compito più arduo della nostra storia: salvare Rifondazione comunista», e poi, a pagina 30 dello stesso documento «ciò che dunque è necessario, anzi decisivo per un avvenire del nostro patrimonio politico e per quello di un campo alternativo della sinistra in Italia, è l'avvio di un vero e proprio processo costituente», è del tutto incoerente e nella migliore delle ipotesi siamo di fronte ad una contraddizione in termini.

Oltre ciò l'auto-candidatura di Vendola rischia di trasformare il nostro Congresso in una sorta di referendum sul prossimo leader!
Ciò sarebbe controproducente e dannoso per il partito; forse lo stesso non riuscirebbe a sopportarlo.

E' il tempo della riflessione e della ricerca. A questo è chiamato il nostro Congresso al fine di riconfermare un soggetto comunista autonomo, condizione essenziale per un rilancio più generale della sinistra nel nostro Paese.



21 Maggio 2008

 

Si può parlare di "nuovo centro-sinistra" senza che Veltroni faccia radicale autocritica del suo comportamento prima, durante e dopo la campagna elettorale?

 
A Fava dico: ma pensi davvero di poter dialogare con questo piddì?
 

di Giulietto Chiesa


Leggo che Claudio Fava ha incontrato Veltroni su due punti all'ordine del giorno. Primo la legge elettorale per le europee. Secondo, l'obiettivo di ricostituire il centro sinistra. Cioè (leggo direttamente dalle parole che Fava ha scritto per Liberazione) "il superamento del falso mito elettorale dell'autosufficienza del Partito Democratico".
E trasecolo. Credo saranno in molti, tra coloro che avevano sperato in Sinistra Democratica, a trasecolare con me.
Dunque cominciamo dal primo punto all'ordine del giorno di una riunione tra colui che ha sferrato una serie di coltellate e uno di quelli che se ne sono presa una.
Claudio voleva forse dire all'accoltellatore che, con tutti i problemi che ha il paese in questo momento, l'idea stessa di mettere come priorità assoluta del dialogo tra maggioranza e "opposizione" la legge elettorale per le europee è una cosa la cui infamità è solo paragonabile alla legge porcata con cui maggioranza e opposizione si sono formate in aprile.
Forse voleva dirgli che l'idea di mettere uno sbarramento, non importa se al 3 o al 5% è palesemente il tentativo di "fare fuori" definitivamente, anche dal Parlamento Europeo, ogni traccia di sinistra. Idea, per altro, formulata per primo da Franceschini, che ha l'ufficio a fianco di Veltroni, subito appoggiata da Marini, poi accolta da Veltroni e da Berlusconi. Insomma, non veniva da Marte.
Forse voleva dirgli che il Parlamento Europeo non forma nessun governo e che quindi l'idea di maggioranze omogenee, madre della "governabilità" craxana, non può fungere da foglia di fico per una operazione come quella.
Forse glielo ha detto. Dice che ha ottenuto di vedere "congelata" questa ipotesi. Ora io penso che l'ipotesi non resterà a lungo "congelata" e che Fava dovrà chiedersi come mai gli aveva creduto in questa fine maggio piena di campi rom assaltati e messi a fuoco. Ma aspettiamo e vediamo.
Tuttavia il punto vero all'ordine del giorno era il secondo. E qui gli interrogativi s'infittiscono. Allora: possiamo accontentarci di definire ciò che è accaduto il 14 aprile come il risultato del "falso mito elettorale dell'autosufficienza del partito Democratico? Sarà stato un falso mito, ma ha consentito al Partito Democratico di liquidare dai due rami del Parlamento italiano, in unica soluzione, tutti i rappresentanti della sinistra, nessuno escluso. Falso mito, che ha permesso al PD di catturare, con il miraggio del voto utile, non meno di un milione e mezzo di voti, sottratti alla coalizione Arcobaleno, salvando, nel frattempo, anche se stesso dalla catastrofe.
Per cui l'interrogativo che propongo a Claudio Fava è il seguente: si può andare a dialogare con Veltroni senza sollevare questi problemi?
Si può porre la questione della "costruzione di un nuovo centro-sinistra" senza che il Partito Democratico faccia una radicale autocritica del suo comportamento prima, durante e dopo la campagna elettorale?
Ci si può accontentare di una dichiarazione di Veltroni che, secondo Fava, avrebbe modificato "radicalmente l'asse della politica del suo partito" nel corso del colloquio con lui?
Si può accettare seriamente per buona una tale conclusione, avvenuta al di fuori di una pubblica presa di posizione, e resa nota per interposta persona? Tanto più che un'immediata intervista di Fioroni, poche ore dopo, la smentiva pubblicamente e totalmente?
E su quali contenuti ricomincerebbe il dialogo per "costruire un nuovo centro-sinistra"? Io vorrei dire a Claudio Fava che, per questa via, e con questi intendimenti, Sinistra Democratica condanna se stessa all'isolamento da quella parte grandissima di elettorato di sinistra e democratico che osserva disgustata le manovre post elettorali del Partito Democratico, e che gradualmente si rende conto di essere stata ingannata, perchè aveva votato per Veltroni, con l'idea di salvarsi da Berlusconi, e si ritrova Berlusconi che dialoga con Veltroni, anzi Veltroni che dialoga con Berlusconi.
Per questa via non si può nemmeno immaginare una "Costituente di sinistra". Per questa via non si dà nemmeno spazio a una correzione di rotta all'interno di Rifondazione, aiutando questo partito a uscire dalle secche di una autolesionistica ipotesi di "ripartenza" dal comunismo. Insomma, per questa via non si va semplicemente da nessuna parte. O, forse, anche senza volerlo, si va nel Partito Democratico. O a una nuova sconfitta.


Liberazione 23/05/2008

Il “nuovo conio” di Claudio Fava

di Alessandro Cardulli

Da Esserecomunisti.it  del 09/06/2008

E’ stato Francesco Rutelli, se non andiamo errati, a usare per primo le parole “nuovo conio” riferendosi al nascituro partito democratico. Non ha portato bene questo “nuovo conio” né al partito, né al Campidoglio, né a lui stesso, viste le sconfitte. Ora ci riprova Claudio Fava coordinatore di Sinistra democratica con una intervista all’Unità sul futuro della sinistra. Intervista esemplare per chiarezza di obiettivi e di intenti. Si capisce subito che invece di aprire un processo unitario dal basso, come viene conclamato ad ogni piè sospinto dagli estimatori del “nuovo conio”, si produce nei fatti una ulteriore frammentazione delle già sparse membra della sinistra. Fava parte da una “provocazione intellettuale” apparsa sul sito web del Centro per la riforma dello Stato riducendola a poche battute e facendole perdere il significato originale. “Forse il comunismo e la socialdemocrazia sono tradizioni politiche concluse”: questa è “la provocazione” cui il coordinatore di Sinistra democratica fa riferimento togliendo subito il “ forse”. Bontà sua poi dirà che del comunismo e della socialdemocrazia “resta la loro cultura politica”, parole già pronunciate da Fausto Bertinotti- Allora che fare? Fava non ha l’ombra di dubbio. “Una sinistra nuova –afferma-non può passare attraverso la somma di ciò che esiste (Rifondazione in primo luogo ndr),dobbiamo aprire un percorso di inclusione”. E per far questo si perde per strada il famoso partire dal basso e si parte dall’alto, dividendo quello che c’è oggi. “ Mi sembra ovvio che ci sia una parte dei compagni di Rifondazione- sottolinea-,come anche dei Verdi e perfino del Pdci che continui a battersi per questa sinistra di nuovo conio”. Claudio Fava, fa l’esame del sangue all’interno di quei partiti,li divide in buoni e cattivi, si prende i buoni e lascia i cattivi al loro destino ed ecco il nuovo soggetto politico,il nuovo partito della sinistra. Quale sarà la sua collocazione internazionale? Anche su questo punto Fava è molto chiaro ed afferma: “ Noi stiamo nella famiglia del socialismo europeo e restiamo lì”. E “lì” dovrebbe arrivare anche il Pd , se gli ex Margherita daranno il via libera visto che il Pse potrebbe cambiare nome, Un “nuovo conio” insomma anche a livello internazionale. Infine , che dovrebbe fare questo nuovo partito italiano? Esemplare la risposta del coordinatore di Sinistra democratica: “ Confronto politico con il Pd anche per togliere l’alibi di chi dovesse dirci,un domani,non si è fatto il nuovo centrosinistra perché la sinistra si è rifiutata di misurarsi su questo tema”. L’intervistatore ha dimenticato una domanda: nuovo centrosinistra per fare che? Ma questo non interessa né a l’Unità né a Fava. La politica politicante è questa. Niente da dire da parte di Vendola,Giordano, Migliore?

 

Una analisi del documento 2, primo firmatario Vendola

La sinistra generica di Vendola

di Raul Mordenti

esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=23869

 

                                        

 

Scajola, il Ministro del Nucleare: solo il 38% degli italiani è a favore, ma niente referendum

 

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Italiani, si ritorna al nucleare. Mentre tutti gli altri paesi europei dicono stop alla costruzione di nuove centrali, come ci hanno spiegato Massimo Cirri e Filippo Solibello di Caterpillar, l'Italia del Berlusconi IV esordisce in controtendenza.

Il Ministro per lo Sviluppo Economico Claudio Scajola ha spiegato all'assemblea di Confindustria: "Entro questa legislatura porremo la prima pietra per la costruzione nel nostro paese di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione. Solo gli impianti nucleari consentono di produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente", e ha poi sottolineato la necessità di "ricostruire competenze e istituzioni di presidio, formando la necessaria filiera imprenditoriale e tecnica e prevedendo soluzioni credibili per i rifiuti radioattivi".

Anche Casini, il leader dell'Udc, sarà soddisfatto della decisione del governo, visto che il nucleare è stato uno dei suoi cavalli di battaglia nella scorsa campagna elettorale. La maggioranza è d'accordo, ma cosa ne pensano gli italiani? Pare che solo il 38% sia a favore, e solo alcune settimane fa la comunità scientifica aveva lanciato un appello ai candidati per pensare a una via alternativa.

Sostenibile denuncia l'assenza di un referendum e Calaminta ricorda che gli italiani si erano già espressi vent'anni fa ma sono tuttora contrari. Anche Libertadistampa si oppone alla scelta del Pdl e suggerisce di pensare al fotovoltaico tedesco anzichè al (futuro) nucleare italiano. E le cose non saranno affatto semplici. Ecco i tre punti cruciali che Scajola non ha considerato

1. prima che una centrale inizi a produrre energia ci vogliono 12 anni dal momento della posa della prima pietra (partendo da oggi intorno al 2020);
2. l'Italia è un paese sismico, con tutti i rischi che comporta;
3. non riusciamo a smaltire i rifiuti normali, per le scorie come faremo?
 

Dalla parte del sì troviamo invece LapulcediVoltaire che parla della necessità di scelte difficili, nella consapevolezza che in Francia e nelle altre nazioni vicine abbiamo un migliaio di centrali, e anche per IlprofessorEchos il nucleare non è poi così male. Ma è davvero l'unica alternativa per l'Italia?

 

Da:https://politicaesocieta.blogosfere.it/2008/05/scajola-il-ministro-del-nucleare-nessun-referendum-ma-solo-il-38-degli-italiani-e-a-favore.html

Pubblicato da Eleonora, Blogosfere Staff alle 14:17 in In evidenza, Italia

 

 

Basta con questi spot dannosi. Sul nucleare Scajola dice falsità Parla Vittorio Cogliani Dezza, Presidente nazionale di Legambiente


di Castalda Mustacchio

«Ma il ministro sa di cosa parla? Basta con questi falsi spot». Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente lancia un durissimo j'accuse nei confronti del neo ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola. «E' rispuntata la favoletta del nucleare - avverte - ma in verità si tratta solo di una gravissima operazione ideologica che potrebbe avere esiti imprevedibili». «Non è più eludibile un piano di azione per il ritorno al nucleare», ha annunciato ieri il ministro nell'assemblea di Confindustria. «Solo gli impianti nucleari - ha dichiarato - consentono di produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente». «Scajola - replica il presidente di Legambiente - dovrebbe fare molta attenzione a ciò che dice prima di sbandierare atomi a destra e a manca. In Europa gli ultimi impianti sono di terza generazione e sono in dismissione, se poi intende realizzare centrali di quarta generazione queste non si potranno costruire prima del 2020. Quindi, in sostanza, di cosa parla Scajola?».

L'immagine “https://home.rifondazione.it/xisttest/images/nucleare.jpeg” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.


Presidente, Scajola ha annunciato il ritorno al nucleare. «Porremmo la prima pietra - ha detto ieri - per la costruzione di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione». Cosa ne pensa?

Innanzitutto questo ministro fa degli errori di sintassi. Preciso meglio: cosa intende per nucleare di nuova generazione? Se si parla di nucleare di quarta generazione, allora si può senz'altro dire che si rinvia tutto a dopo il 2020 dato che la ricerca è ancora in corso. Se poi il ministro fa, invece, riferimento a centrali di terza generazione dovrebbe ben sapere che attualmente questo tipo di centrali sono in dismissione in tutta Europa. Pensare di costruirle in Italia significherebbe fare un buco nell'acqua. Dunque vorrei che prima di tutto Scajola facesse chiarezza.

Eppure il ministro ha parlato di sicurezza, competitività, costi bassi per l'energia...

Ancora altri errori gravissimi, altre bugie. Non c'è nessun elemento di novità sul piano della ricerca né dell'innovazione rispetto al nucleare che ha portato all'incidente di Chernobyl. Il nucleare attuale presenta letteralmente gli stessi identici rischi. Dunque, punto primo: non si può parlare di sicurezza. Per quanto riguarda la competitività. Si continua a dire che il nucleare produrrebbe energia a basso costo. Anche questa è una vera bugia perché nel calcolo del kw finale non si tiene conto di altri parametri indispensabili per quantificare il vero costo. Vale a dire bisogna considerare la filiera che sta dietro la costruzione di una centrale per parlare di un costo vero. E questa è fatta da costi di progettazione oltre che di smaltimento dei rifiuti. Se Scajola considerasse il tutto uscirebbe fuori che il costo energetico sulla collettività sarebbe analogo o addirittura leggermente superiore rispetto al solare. Quindi il nucleare non è affatto competitivo. In più, a margine, vengono dette altre falsità.

Quali?
Per esempio si continua a dire che il nucleare è pulito. Su questo ultimo punto potrei essere d'accordo se si va ad escludere però tutta la filiera che sta dietro la costruzione di una centrale che produce e come C02 e in quantitativi allarmanti. Inoltre vorrei aggiungere un'altra riflessione.

Prego...
Marcegaglia ieri ha affermato che il nucleare elimenerebbe la dipendenza dall'estero. Ci chiediamo: ma Marcegaglia conosce depositi di uranio in Italia che a noi non risultano? Senza considerare che quando si parla di uranio si parla si riserve che si prevede possano avere dai 35 ai 70 anni di sopravvivenza. Una risorsa limitatissima per il pianeta, come lo è attualmente il petrolio. Altro elemento di analisi che pongo all'attenzione di tutti è il seguente: per costruire una centrale ci vogliono almeno 10 anni. Il primo, e fino ad oggi, unico reattore nucleare commissionato in Europa occidentale dopo Chernobyl è quello finlandese sull'isola di Olkiluoto che ha già sforato il budget di spesa previsto del 35%. In Italia, conoscendo la situazione, si finirebbe per sfiorare costi superiori al 45-50%. E' ora di dire a questo governo di smetterla di lanciare spot solo ideologici e molto gravi perché depotenziano tutte quelle iniziative per il rilancio di vere energie pulite. Concludo dicendo che la Spagna ha raggiunto il 29% di produzione energetica dal rinnovabile eolico superando di gran lunga la quota che produrrebbe il nucleare che non supera il 12%. Forse bisognerebbe prendere esempio da questo paese.

Liberazione, 23 Maggio 2008

  

Un impianto dura tra 100 e 150 anni

 

Ancora non esiste un sistema per calcolare tutti i costi ambientali

Sergio Zabot*
Per valutare correttamente il costo di un kWh prodotto con diverse fonti è necessario ricorrere al Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita), che altro non è che un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati a un prodotto/processo/attività lungo l'intero ciclo di vita, dall'acquisizione delle materie prime al fine vita. Ora, il ciclo di un impianto nucleare varia tra i 100 e i 150 anni. Ciò significa che un impianto concepito ora entrerà in esercizio, diciamo, tra 20 anni; poi funzionerà per 60; quindi inizierà lo smantellamento con tutte le attività conseguenti per almeno altri 20, per poi confinare definitivamente i residui e bonificare il sito. Nel frattempo ad ogni cambio di combustibile (diciamo una volta all'anno) quello esausto, che poi esausto non è, deve essere raffreddato in piscina per 10 anni, poi ritrattato e infine messo a dimora definitiva, sempre che tra 20 anni sia stato identificato e approntato un sito definitivo geologicamente stabile (almeno per quanto riguarda l'Italia).
Tutto questo vuol dire che, per sapere ora quanto costa un kWh prodotto con l'energia nucleare, bisognerebbe sapere quanto costerà raffreddare, ritrattare, condizionare, confinare definitivamente il combustibileesausto anno per anno, da qui a 80 anni, e quanto costerà, sempre tra 80 anni e per i successivi 20, lo smantellamento e il confinamento di tutti i residui delle centrali ovvero il decommissioning , inclusa la bonifica del luogo in cui sorge l'impianto. Solo così si può ragionevolmente pensare di accantonare le risorse che saranno necessarie tra 80 anni e non lasciare quindi "debiti ingombranti" ai nostri nipoti.
Oltre a questo, occorre poter stimare le cosiddette esternalità ambientali (definite come costi non sostenuti direttamente dai soggetti responsabili dei danni ambientali). Rappresentano pertanto costi a carico della collettività e non dei soggetti economici che svolgono l'attività che li ha provocati. L'esempio tipico è l'inquinamento dell'aria, che danneggia l'intera collettività e i cui costi sono sostenuti solo in minima parte dagli inquinatori. Una scelta economica ottimale, oltre a considerare i costi e i ricavi di una data impresa, dovrebbe consentire di internalizzare i costi sociali (esternalità) non altrimenti considerati.
La possibilità di far rientrare nel normale calcolo di ogni attività economica anche i costi ambientali si scontra con la difficoltà di quantificare e monetizzare le esternalità. A partire dagli anni ‘80 sono stati avviati studi persuperare tali difficoltà e permettere così agli operatori economici e ai decisori politici, di includere le esternalità nelle scelte politico-economiche.
Nel 1991 la Commissione Europea insieme al DoE statunitense ( Department of Energy ) ha avviato un programma di ricerca denominato ExternE che si è affermato come studio di riferimento per le esternalità legate all'inquinamento atmosferico dovuto a combustione per produzione di energia e trasporti. ExternE tuttavia analizza e valuta gli effetti dell'uso dei combustibili fossili e non risulta che nessun studio sia ancora stato avviato per l'equivalente valutazione del ciclo dell'energia nucleare.
*Ingegnere, direttore Settore energia
Provincia di Milano


Liberazione 24/05/2008

 

Cini:«Il nucleare è costoso,irrazionale e anti-economico»

Intervista al fisico e professore alla Sapienza di Roma


«Vogliono il nucleare per poter mettere le mani sulle casse dello Stato»
 

Rina Gagliardi
Il "ritorno del nucleare", con tanto di ambientalisti pentiti (pardon, con tanto di ambientalisti che hanno cambiato idea), è una sciagura quasi unicamente italiana - le maggiori potenze dell'occidente sviluppato, e non solo, hanno smesso da un pezzo di progettare e costruire nuove centrali ad uranio, e investono in altre risorse energetiche. Ecco un dato quasi del tutto trascurato dalla discussione, chiamiamola così, di queste settimane. Che anche per questo ha un taglio e un valore fortemente simbolico - culturale, nel senso lato del termine. Di questo, e delle ragioni di merito per le quali, a più di vent'anni di distanza da Chernobyl, non c'è nessuna ragione valida (scusate il voluto bisticcio linguistico), per rilanciare l'uso del nucleare, abbiamo parlato con Marcello Cini. Un intellettuale che sa di scienza, di non neutralità della scienza e di politica. Un antinuclearista non pentito, oltre che un difensore attivo della laicità.

l No al nucleare, per quasi vent'anni, è stato largamente egemone nel Paese e nella cultura di sinistra - quantomeno nella sua componente meno "sviluppista" e meno scientista. Oggi non è più così. Come mai, secondo te, la proposta del nuovo governo di centrodestra, ottiene in fondo un consenso così largo, e molto "trasversale"?
Perché questa proposta è parte integrante dell'egemonia attuale, profonda, della destra. E' frutto del clima politico e culturale che stiamo vivendo - che stiamo cioè subendo, come ha ampiamente analizzato Bertinotti nella "giornata di studio" che la rivista "Alternative per il socialismo" ha dedicato, venerdì scorso, alle ragioni della sconfitta. La destra, questa volta,ha vinto anche perché ha "convinto": i suoi valori, i suoi paradigmi, il suo linguaggio, la sua idea di società non hanno trovato - specificamente nell'ultima campagna elettorale - una opposizione (o un'alternativa) davvero reali e convincenti. Così, il nucleare ritorna in campo, insieme al Ponte di Messina, alle Grandi Opere, a tutto ciò che allude ad un modello di sviluppo falsamente "moderno" ed efficiente, per ragioni altamente simboliche.

Più simboliche che economiche? Non c'è dunque, dietro il piano Scajola, un interesse diretto dei "poteri forti"a investire nell'energia nucleare?
Mah, a parte il fatto che il piano Scajola ancora non è davvero noto, il nucleare non è certo un settore che garantisce alti livelli di redditività o di profitto: ha costi enormi, sia di progettazione che di costruzione, oltre che di mantenimento (e di smantellamento), ha bisogno di misure di sicurezza straordinarie, ha una fonte di approvigiomento, l'uranio, che è "finita" quasi quanto il petrolio. Voglio dire che questa scelta del governo (e di parte dell'opposizione) non si spiega attraverso un "classico" paradigma di tipo economicistico (anche se poi, naturalmente, se si procederà alla costruzione di nuove centrali, i soldi, tanti soldi, circoleranno). Il fatto è che questa destra non è riducibile ad un'opzione puramente neo-liberista, "capitalistica", all'equazione libero mercatointeressi diretti di classe della borghesia: essa, quasi al contrario, tende ad attingere a piene mani nelle casse dello Stato, ovvero nelle tasche dei cittadini, inseguendo mega-progetti sostanzialmente irrazionali e improduttivi, colludendo con la componente più speculativa - mafiosa - della borghesia italiana. Da questo punto di vista, il caso del nucleare è esemplare. Ancora non è detto che esso si farà davvero - le centrali così dette di "quarta generazione", quelle che dovrebbero aver risolto tutti i problemi della sicurezza, ci saranno, se ci saranno, tra venti, venticinque anni, non prima. Ma sicuramente nel frattempo l'Enel metterà le mani sulle centrali dell'Est (a proposito, le più vecchie, le meno sicure…). Nel frattempo, verranno investite risorse pubbliche molto ingenti nella "preparazione" e negli studi, a favore di comitati, corti di tecnici, consulenti, e via dicendo. Una pioggia di laute prebende a gruppi ben determinati, che non farà fare a questo Paese alcun vero passo in avanti. Ma anche il simbolo di una scienza e di una tecnologia elitarie: nelle mani dei "pochi che sanno", contro la moltitudine che è tagliata fuori, non sa, non può controllare nulla.

Si dice che le energie alternative, le fonti rinnovabili, non sarebbero comunque in grado di risolvere il problema del fabbisogno energetico. E che dunque serve, come minimo, un mix - nucleare e solare, nucleare ed eolico. E' vero?
No che non è vero. Implicitamente o esplicitamente, il riferimento è sempre quello del modello di sviluppo che si vuole perseguire - che cosa produrre, quanto e come produrlo, quanto e come consumare. L'argomento che citavi, e che viene citato molto spesso, non è solo di tipo "contabile": in realtà, è l'indizio più chiaro della pigrizia della borghesia italiana, della sua inesistenza imprenditoriale. Non c'è oggi, in questo paese, nessun imprenditore che abbia il coraggio di investire sul serio nel campo delle energie alternative, cioè rinnovabili. Così come non c'è un politico che abbia capito la portata del problema - a differenza di quello che accade nei principali paesi d'Europa, come la Germania. E' chiaro come il sole che il solare, l'eolico e il fotovoltaico costituiscono una soluzione di valore crescente man mano che diventano l'investimento privilegiato, man mano che che nella società si afferma la centralità economico-politica e culturale delle energie rinnovabili. E che, viceversa, se si opta per una tecnologia costosissima, e di retroguardia, come il nucleare, il gatto non fa che mordersi la coda.

Riassumendo: il nucleare è, prima di tutto, una scelta miope. Succhia risorse colossali, blocca l'obiettivo vero, le energie rinnovabili, non risolve i problemi, né a lungo né a medio termine. E la sicurezza? La ragione per la quale forse ancora molte persone non si fidano di una centrale atomica?
Guarda che, secondo me, quello della "non sicurezza" è un argomento relativo (a parte il fatto che, siccome viviamo in Italia, mi sembra lecito mettere nel conto non l'"insicurezza" in sé e per sé delle centrali di Scajola, ma l'inaffidabilità dei nostri sistemi di controllo, a differenza di quelli tedeschi o francesi). E' dimostrato, cioè che le centrali nucleari possono essere ben protette e relativamente "sicure", ancorché non sia stato risolta, a tutt'oggi, la questione dello smaltimento delle scorie. La domanda è: a quale prezzo? Con quali costi? E parlo sia dal punto di vista economico che da quello della democrazia. Se una delle ragioni più frequentemente addotte a favore del nucleare, almeno qui da noi, è la necessità di risparmiare sui costi attuali, non è difficile capire che, fatti tutti i conti, sono proprio i conti a non tornare. Insomma, l'energia nucleare "sicura" è costosissima - basti vedere quanto costa chiudere una centrale, quando ha finito il suo percorso di vita. Ma la sicurezza richiesta ha anche un costo politico: militarizzata o no che sia, una centrale nucleare configura una struttura autoritaria. Diventa il simbolo di una società in cui, come già dicevo, nessuno può mettere bocca sulle grandi scelte - nessuno può prender parola, discutere, partecipare, a parte l'oligarchia di coloro che conoscono e gestiscono. In questo senso, il modello di sviluppo fondato sull'energia nucleare è davvero una revanche sul Sessantotto. La restaurazione dell'ordine che quel movimento ha combattuto, con qualche successo anche duraturo. L'idea che la società è rigidamente divisa in classi, quelle dominanti e quelle subalterne - e i diritti, quando e se ci sono, sono mere elargizioni, e il controllo sociale e di massa è obliterato. Foucault, in fondo, aveva già detto tutto. Sì, stiamo davvero andando verso un regime - per quanto "leggero" esso sia…


Liberazione 17/06/2008

 

Appello al governo sulle politiche energetiche
 

1300 scienziati: «Scelte sbagliate Coinvolgeteci»


Appello al governo sulle politiche energetiche

«Uno dei problemi più delicati e più difficili che il nostro Paese ha oggi di fronte è quello dell'energia; le decisioni che verranno prese a questo riguardo condizioneranno non solo la nostra vita, ma ancor più quella dei nostri figli e dei nostri nipoti. Per prendere decisioni sagge su un tema così complesso è necessaria una forte collaborazione fra scienza e politica.
Siamo un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca e, in virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, abbiamo sentito il dovere di esprimere la nostra opinione sul problema energetico con l'appello riportato sul sito: www.energiaperilfuturo.it
L'appello, sottoscritto da più di milleduecento docenti e ricercatori, sottolinea l'urgenza che nel Paese aumenti la consapevolezza riguardo la gravità della crisi energetica e climatica, insiste sulla necessità del risparmio e di un uso più efficiente dell'energia ed esorta il governo a sviluppare l'uso delle energie rinnovabili ed in particolare dell'energia solare.
A nostro parere l'opzione nucleare non può essere considerata la soluzione del problema energetico per molti motivi: necessità di enormi finanziamenti pubblici, insicurezza intrinseca della filiera tecnologica, difficoltà a reperire depositi sicuri per le scorie radioattive, stretta connessione tra nucleare civile e militare, possibile bersaglio per attacchi terroristici, aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, scarsità di combustibili nucleari.
La più grande risorsa energetica del nostro pianeta è il Sole, una fonte che durerà per 4 miliardi di anni, una stazione di servizio sempre aperta che invia su tutti i luoghi della Terra un'immensa quantità di energia, 10mila0 volte quella che l'umanità intera consuma. Sviluppare l'uso dell'energia solare e delle altre energie rinnovabili significa guardare lontano, che è la qualità distintiva dei veri statisti. E' un guardare lontano nel tempo, perché getta le basi per un positivo sviluppo tecnologico, industriale ed occupazionale del nostro Paese, senza porre pericolosi fardelli sulle spalle delle prossime generazioni. E' un guardare lontano nel mondo, perché, a differenza dei combustibili fossili e dell'uranio, l'energia
solare e le altre energie rinnovabili sono presenti in ogni luogo della Terra e, quindi, il loro sviluppo contribuirà al superamento delle disuguaglianze e al consolidamento della pace. Saremo ben lieti di mettere a disposizione le nostre competenze per discutere il problema energetico in modo approfondito nelle sedi opportune».
Firmato: Vincenzo Balzani (Università di Bologna), Vincenzo Aquilanti (Università di Perugia), Nicola Armaroli (Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna), Ugo Bardi (Università di Firenze), Salvatore Califano (Università di Firenze), Sebastiano Campagna (Università di Messina), Luigi Fabbrizzi (Università di Pavia), Michele Floriano (Università di Palermo), Giovanni Giacometti (Università di Padova), Elio Giamello (Università di Torino), Giuseppe Grazzini (Università di Firenze), Francesco Lelj Garolla (Università della Basilicata), Luigi Mandolini (Università La Sapienza, Roma), Giovanni Natile (Università di Bar), Giorgio Nebbia (Università di Bari), Gianfranco Pacchioni (Università Milano-Bicocca), Paolo Rognini, (Università di Pisa), Renzo Rosei (Università di Trieste), Franco Scandola (Università di Ferrara), Rocco Ungaro (Università di Parma)... e altri 1278 scienziati (fino a ieri).
E' questo l'appello - che pubblichiamo per intero - lanciato ieri da alcuni dei più famosi scienziati del paese, con una lettera a Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, al Ministro dello Sviluppo Economico e Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca. Lo possono firmare tutti (già circa 5mila cittadini l'hanno fatto), ma ovviamente la sua "caratura" è quella delle comunità scientifica. A partire dal promotore dell'iniziativa, Vincenzo Balzani, docente di Chimica Generale ed Inorganica all'Università di Bologna, uno dei più noti internazionalmente e rigorosi studiosi italiani. La lettera si intitola: "Appello dei docenti e ricercatori delle Università e Centri di ricerca Italiani ai Candidati alla guida del paese, affinché vengano prese decisioni sagge e coraggiose per la politica energetica italiana" e il suo senso è ben rappresentato dalla frase del premio Nobel per la Chimica del 1991, Richard R. Ernst, posta come sorta di ex-ergo sul sito: "Chi altri, se non gli scienziati, è responsabile per stabilire le linee guida che definiscono il progresso e per proteggere gli interessi delle generazioni future?"


17/06/2008

 Oggi Scajola sdogana il nucleare

di C. L.

su Il Manifesto del 18/06/2008

Alla fine il momento è arrivato. Cacciato definitivamente il fantasma di Chernobyl, accantonati con prepotenza i dubbi sui vantaggi che davvero potrebbero derivare dall'atomo, oggi l'Italia si prepara a riaprire ufficialmente le sue porte al nucleare. Il via lo darà nel pomeriggio il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola, presentando in consiglio dei ministri un pacchetto di norme che serviranno a sbloccare la costruzione di impianti atomici nel nostro paese, ventuno anni dopo che il referendum del 1987 li aveva messi al bando. «Dobbiamo superare i vecchi ideologismi, che nulla hanno a che fare con la concretezza del problema», ha spiegato lunedì Scajola parlando all'assemblea milanese di Federchimica. Ma non tutti sono d'accordo. Proprio in queste ore, infatti, al premier Silvio Berlusconi è stata recapitata una lettera aperta nella quale più di 1.200 scienziati gli chiedono di non rilanciare il nucleare, mentre per oggi pomeriggio alle 17 Legambiente, Greenpeace e Wwf hanno indetto un sit in davanti a Montecitorio per contestare quella che definiscono come una scelta «arretrata, antieconomica e insicura».
Il governo si prepara dunque a mantenere la parola data solo poche settimane fa all'assemblea di Confindustria, quando lo stesso Scajola annunciò di voler arrivare, «entro la fine della legislatura», alla posa delle prima pietra per la costruzione delle prime centrali che, stando ad alcune anticipazioni, dovrebbero essere almeno quattro. Le nuove misure sugli impianti nucleari sono inserite nel pacchetto energia della manovra finanziaria e prevedono incentivi per le popolazioni che accetteranno di convivere con una centrale. In particolare si pensa a un taglio delle bollette elettriche, i cui costi sarebbero a carico delle società coinvolte nella costruzione o nella gestione degli impianti.
Ma come prima cosa il governo dovrà individuare i siti in cui aprire i nuovi cantieri. E qui le cose potrebbero complicarsi, fino al punto di rivedere le stesse proteste avute in Campania con le discariche per i rifiuti. E forse proprio per ritardare al massimo possibili momenti di tensione, il governo ha deciso di far slittare alla fine dell'anno l'individuazione dei criteri, morfologici e geologici, che dovranno avere i nuovi siti. Nel frattempo verrà creato un comitato di saggi che avrà il compito di aprire un primo confronto con le popolazioni e gli enti locali. Ma che aria tira, lo si è già capito. Il piano deve infatti ancora vedere la luce e Scajola ha già dovuto digerire due no. Il primo è arrivato dal governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, per il quale «qualunque discorso su localizzazioni in Lombardia è del tutto prematuro». Il secondo è invece dell'assessore all'Ecologia della Regione Puglia. «In materia energetica - ha detto Michele Losappio - la Puglia ha, verso lo Stato, solo crediti da riscuotere. Ci aspettiamo pertanto un impegno che escluda la nostra Regione dalle possibili destinazioni del nucleare».
Almeno sulla carta tutto sembra comunque essere pronto. L'obiettivo del governo, annunciato da Scajola e confermato ieri anche dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, è quello di diversificare la produzione di energia elettrica, puntando su un 25% frutto del nucleare, un altro 25% derivante da energie alternative e su un 50% dai combustibili fossili. Un piano che piace al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che non ha perso occasione per ribadire ancora una volta il suo appoggio alla scelta nucleare di palazzo Chigi.

 

«La Fiom dà fastidio, mi aspettavo la "stretta", Ma davvero non così...». Intervista a Gianni Rinaldini,

di Stefano Bocconetti


Non è facile parlare con Gianni Rinaldini in una giornata come quella di ieri. Lui che è sempre parco di parole, ieri sembrava avere ancora meno voglia di parlare. Meno voglia del solito. Il segretario della Fiom è appena uscito dal direttivo della Cgil. Dove ha parlato. Per trenta secondi, forse qualcosa di più. Trenta secondi che sono destinati comunque a segnare uno spartiacque nella storia del più forte sindacato industriale italiano. Ecco cosa è successo: a metà pomeriggio, Gianni Rinaldini, è andato alla tribunetta della sala, dov'era in corso il vertice della Cgil. Si stava discutendo dell'accordo firmato con Cisl e Uil sulla riforma dei contratti. Lui ha detto queste poche parole: la proposta non mi convince. Ma non voglio entrare nel merito, non ne voglio parlare ora. Perché «due ore fa è stato preso un provvedimento disciplinare nei confronti del gruppo dirigente della Fiom di Milano. Provvedimento che giudico immotivato. Io mi assumo tutta la responsabilità delle scelte fatte dal sindacato milanese. E la mia vicenda personale seguirà quella di Maria Sciancati (appunto la segretaria della Fiom di Milano, ndr)».

Che significa quest'espressione?
Che se lei sarà sospesa, lo stesso dovrà valere per me.

Parliamoci chiaro, Rinaldini. Questo provvedimento disciplinare...
Questo provvedimento assolutamente immotivato, devi aggiungerlo sempre...

Questo provvedimento ingiustificato, si può definire come un tentativo di "epurazione", per usare le parole di tanti altri dirigenti della Fiom?
Chiamala come vuoi, definiscilo come ti pare. Resta il fatto che nella mia vicenda sindacale, iniziata davvero tanto, tanto tempo fa, ne ho viste di tutti i colori. Ma mai una cosa di questo genere.
Davvero va al di là della mia immaginazione.

E che ti fa venire in mente?
Vuoi sapere se mi ricorda i periodi più bui della storia del movimento operaio? Sì, forse me li ricorda. Ma non conta. Io penso che tutto questo sia soprattutto una cosa: inaccettabile.

Ma perché è avvenuto? Perché vogliono far fuori la Fiom?
Manovre, scenari, dietrologia. Ad un dirigente sindacale tutto questo non dovrebbe interessare. Ho le mie idee ma non dimentico di essere soprattutto il segretario di un'organizzazione complessa e articolata come la Fiom. Allora, mi limito ad accostare, a mettere uno al fianco dell'altro i tasselli...

Facciamolo insieme questo lavoro. Che mosaico viene fuori?
Valuta te. Io vedo che "casualmente" nella stessa giornata, la Cgil ha chiesto di ratificare un accordo, che credo non possa piacere ad una categoria come quella dei metalmeccanici. Ma proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuta avviare una discussione così impegnativa e delicata, ecco che si tira fuori questo provvedimento...

Perché usi l'espressione "si tira fuori"?
Perché ora si sa che il provvedimento era pronto dal 18 aprile. Venti giorni fa. E si riferisce a fatti, avvenuti ormai un anno fa.

Stai dicendo che vogliono far fuori la Fiom? Stai dicendo che la vogliono far fuori adesso? Che c'è un giro di vite verso chi dissente?
Mi limito a constatare che una vicenda come questa, anzi: vicende come quelle di oggi, dovrebbero costringere tutti a riaprire una discussione su cosa sia la democrazia nel sindacato. Su cosa sia diventata la democrazia nel sindacato.

In quelle poche battute che hai pronunciato dal palco del direttivo della Cgil, hai detto che l'accordo fra le tre confederazioni non ti convince. Perchè?
Perché sono convinto che il contratto nazionale debba restare lo strumento principale su cui fare leva per far crescere i salari. Questo deve essere l'obiettivo principale. E insisto: obiettivo principale, il che significa che alcune modifiche, alcuni aggiustamenti possono essere fatti. Possono essere discussi. Ma il contratto è e deve restare il primo strumento. Ridurlo, invece, a semplice difesa del potere di acquisto, come si vuole fare con quest'intesa, e delegare la crescita salariale vera e propria alla contrattazione aziendale; non solo ma legare tutto ciò agli aumenti di produttività, significherebbe una cosa sola: rompere il vincolo di solidarietà fra lavoratori. Prova a pensare davvero a cosa accadrebbe nei prossimi dieci, quindici anni, se il contratto nazionale fosse ulteriormente impoverito. Si creerebbero sperequazioni insostenibili. Però, ti ripeto: su questo davvero ho poca voglia di parlare oggi. Anche per una questione di correttezza con il sindacato che rappresento: a giorni, giovedì e venerdì prossimi, abbiamo una conferenza di organizzazione. Discuteremo tutti insieme cosa significhi l'accordo fra Cgil, Cisl e Uil, che conseguenze avrà nelle nostre fabbriche e come comportarci. Ne discuteremo e ci sarà anche Epifani.

Scusa, Rinaldini ma tu pensi che un giro di vite contro questa categoria così "riottosa", sia l'ennesimo segnale inviato da chi vuole costruire un sindacato a-conflittuale? Un sindacato magari legato a doppio filo col mondo della politica, dove ormai le differenze fra maggioranza e opposizione sono sempre più sfumate? Tanto più sui temi del lavoro?
Che vuoi che ti dica? Questa potrebbe essere una chiave di lettura, una delle chiavi di lettura possibili. Ma io mi limito a risponderti che spero di no. Spero che non sia così. Vorrei continuare a credere che tutti, nella mia organizzazione, abbiamo a cuore un sindacato autonomo. Autonomo dal potere e dal quadro politico. Spero davvero che non sia così. Lo spero per tutti.

Ma dì la verità, te l'aspettavi una "mossa" come quella decisa a Milano?
Francamente così, in queste forme no. Comunque, non mi piace fingere e ti dico che tante cose stavano lì a dirci che c'era la volontà di arrivare ad una "stretta" coi metalmeccanici. Ma così, ti assicuro, con questi metodi davvero non me l'aspettavo.

E sul piano personale? Come ti senti? Sotto pressione?
Veramente sono sei anni che non ci sono dieci minuti di tranquillità. Contratti, terrorismo, rimproveri, accuse... Ma va bene così. Fare il segretario dei metalmeccanici non è mai stato facile. E forse era scritto che non potesse esserlo neanche in questo periodo.

 Liberazione 08/05/2008

 

 

Pride Milano, imbavagliati sotto il Duomo

di Maurizio Pagliassotti

su Liberazione del 08/06/2008

Chissà quanti erano ieri pomeriggio al Cristopher Street Day, il Gay pride di Milano. Diecimila, ventimila, cinquantamila? Comunque sia chi c'era ha fatto una manifestazione bella, fiera e piena di gioia. Molto più che semplice orgoglio omosessuale. Partenza programmata alle ore 16 da via Palestro, arrivo previsto dopo due ore in Piazza Duomo. Nel cielo c'è un timido sole anche se all'orizzonte ci sono i soliti nuvoloni. Alle cinque è ancora tutto in alto mare, perché sul corso Venezia stanno sfilando le organizzazioni ambientaliste capeggiate da Legambiente. Ma a chi importa del ritardo, chi se ne frega. L'assembramento è una discoteca colorata che spara a tutto volume musica goa e techno. Ci sono almeno 6 sound system che martellano un pezzo dietro l'altro. La gente balla, si fa fotografare, sfila accanto a trans vestiti da wonder woman e Marylin Monroe.
Ci sono le coppiette che si baciano, le mamme, i curiosi, i guardoni che non capiscono se quel seno così grande sia di un uomo o di una donna. Ci sono perfino i valdesi del gruppo Varco riconosciuti ufficialmente dalla chiesa valdese di Milano. Si prospettano tempi duri per loro? La chiesa di Roma tornerà a perseguitarli? Finito il lento scorrere degli ambientalisti si può partire. Apre il corteo un trans vestito con un mini abito rosso, a tracolla porta una fascia con la scritta "pace". Rimarrà in testa al corteo per tutto il percorso e riscuoterà persino il consenso di alcuni poliziotti di scorta che dandosi di gomito commentano: «Da non crederci che abbia il...». C'è l'Arci Gay di Milano, vari centri sociali, sventolano le bandiere del Prc e di Sinistra critica. Il corteo scivola su corso Palestro tra due ali di folla che al passaggio dei carri si trasforma da curiosi osservatori a partecipanti. E' infatti impossibile rimanere fermi a guardare. I deejay sono travolgenti, volano coriandoli colorati e cuoricini, una vera festa. Dopo la techno va il pop e quindi Madonna, Britney Spears, le Spice Girls ma anche Raffaella Carrà con un sempreverde "Come è bello far l'amore da Trieste in giù".
Festa, quindi, ma non solo. Rabbia e delusione contro un governo omofobo, contro la ministra Mara Carfagna che rifiuta il patrocinio al Pride nazionale di Bologna e si dice contraria al riconoscimento delle coppie di fatto. E soprattutto ci sono le ingerenze della chiesa cattolica che non vanno giù: «Ratzinger deve imparare a farsi i c.. suoi! che ai nostri ci pensiamo noi» urla da un carro un ragazzo. «L'ingerenza su ogni aspetto della vita sociale del Vaticano è inaccettabile. Noi siamo il vero popolo per la libertà e non chi subisce gli ordini da Santa Romana Chiesa!». Boato di consenso e coriandoli. Alle sei e mezza, un'ora dopo la partenza, la coda del corteo è ancora in corso Palestro, e per bocca di molti partecipanti il pride Milano 2008 è il più partecipato degli ultimi anni.
«Non toglieremo il disturbo!» questo è lo slogan che viene scandito dai partecipanti che aggiungono provocatoriamente: «Anzi, da ora ne daremo molto di più». Davanti a palazzo Marino è la volta di Letizia Moratti sindaco di Milano, viene caricata anche lei: «Maleducata, cafona, omofoba, troglodita». Il Pride Milano 2008 non va molto per il sottile. L'ex ministra non ha nemmeno risposto alla richiesta degli organizzatori di patrocinio per la manifestazione. Silenzio e basta. Dopo Moratti è la volta del negozio di Dolce e Gabbana. «Le due frocione di Milano che anche quest'anno non si presentano al Pride! Siete patetiche!». Urlano dal corteo. E' noto che i due stilisti sono una felice coppia berlusconiana. Si avvicina piazza del Duomo ed anche il momento di finire con il casino e passare alla protesta che faccia riflettere. Vengono distribuiti degli adesivi bianchi con sopra una x. A pochi metri dalla piazza la musica viene abbassata. Tutti tacciono e le bocche vengono coperte con l'adesivo. Turisti e passanti vedono quindi una moltitudine di gente coperta di coriandoli piume, alcuni mascherati ma in totale silenzio. Il messaggio è chiaro: ci stanno costringendo a chiudere la bocca. E' un tempo davvero lungo quello che viene imposto dal corteo, sembra che non debba finire mai. Ma poi ecco la seconda parte del messaggio: non ci ridurrete mai al silenzio. Ed è un ennesimo scoppio di musica, improvviso, scandaloso, ribelle. Di nuovo ballo, festa, musica e allegria. La gente è coinvolta, ride, apprezza. Ma ci sono anche i trogloditi uno va da due poveri finanzieri e chiede loro: «chi vi ha dato il permesso per fare una cosa del genere?. E' una vergogna!». Se al governo Berlusconi piace giocare a fare il duro troverà anche il movimento Glbt a sbarrargli la strada.
E infatti mentre in chiusura va il solito pezzo degli Ymca parte un coro che ci si aspetta in altri contesti: «Chi non salta un fascista è!». E la folla del Pride 2008 salta convinta.

 

«Siamo cinquecentomila» Roma invasa, un successo

«A Carfagna chiediamo rispetto e diritti». E piazza Navona si trasforma in un rave a cielo aperto

Castalda Musacchio

 
«Carfagna nuda sui calendari e noi spogliati dei diritti». Roma è stata invasa. E "testardamente" per tornare a chiedere «parità, dignità e laicità». A giungere ieri come promesso sin nel cuore della capitale, e in modo inaspettato, sono state quasi cinquecentomila persone (10-20mila per la questura ma è ininfluente). Come previsto un corteo festoso, gioioso, pacifico, tollerante e soprattutto esplosivo. Si balla house, pop, i carri dei centri sociali lanciano anche assoli blues, rock, bande musicali itineranti improvvisano musiche gitane e si sente persino la marcia nuziale. «Siamo in cinquecentomila» urlerà infine Rossana Praitano dal palco di piazza Navona, una piazza in verità troppo piccola per contenere un fiume di gente che si riserva in strada, invade piazza Campo de' Fiori e le vie adiacenti inseguendo le note di musica tecno electro house hip hop.

E dire che la ferita
non è stata rimarginata, quella decisione «assurda» - diranno ancora dal palco - «di aver voluto negare piazza San Giovanni al Pride per motivi che ad oggi restano oscuri». «Segno di questo clima di intolleranza» annota Luxuria «che fa tornare indietro il Paese di anni luce». Eppure il corteo è sfilato tra i sorrisi di tutti, tra le spose e gli sposi, tra i confetti e le torte nuziali per i matrimoni promossi dal carro dell'Arcigay, matrimoni naturalmente "virtuali" tenuti dalla deputata del Pd Paola Concia e dal giornalista del Tg1 Stefano Campania. A sugellare che solo «con la partecipazione - annoterà Smeriglio (Prc) - si vince l'intolleranza». Unico segno negativo - riferirà Fabrizio Marrazzo, presidente di Arcigay Roma - è stato un episodio subito bloccato. Un tentativo di invasione da parte di una trentina di estremisti di destra che ha cercato di irrompere nel corteo all'altezza di via dei Fori Imperiali sventolando bandiere nere con la croce celtica. Ma è stato davvero un vano tentativo perché ha vinto ciò che era nella previsione di tutti: «La gioia, la voglia - dirà ancora Praitano, presidente del Mieli - di essere di nuovi qui a chiedere diritti». E dire che non si prevedeva neppure tanta voglia di esserci. Si sfila con il testa al corteo il carro color fucsia del Mieli, a reggere lo striscione fanno da staffetta Paola Concia, Luigi Nieri, Vladimir Luxuria e Franco Grillini oltre allo stesso Smeriglio ma i protagonisti sono soprattutto loro, «siamo noi!» urlano da dietro i venti carri le migliaia di persone che ballano. «Questa città è stata fantastica!» dirà ancora Praitano. «E' stato un successo straordinario». Ieri è stato proprio così. Ed è bastato poco pochissimo per far sì che proprio la musica esplodesse in una piazza Navona gremitissima. «E sì che ci sente il Vaticano» urlano tra la folla. «E ci sente pure Carfagna». La ministra delle Pari opportunità è stata suo malgrado al centro del Pride.

Ma non c'è stata nessuna voluta
polemica né toni accesi, nessuno scontro, come qualcuno ha temuto, quando si è appreso che la questura aveva negato San Giovanni a causa di un concerto che si teneva all'interno della Lateranense.

«E' stato - ribadirà Praitano dal palco di piazza Navona - un Pride fortemente osteggiato non solo per la mancata concessione di San Giovanni ma anche dalla comunicazione della Carfagna e di Alemanno che dicevano che noi "ostentiamo". Ma cosa ostentiamo? L'essere liberi forse? Nessuno si è assunto la responsabilità della mancata concessione di San Giovanni negata per incompatibilità - ha continuato - ma non c'è nessuna incompatibilità fra gli esseri umani. La piazza si voleva oscurare, non si voleva far vedere così. Una delle preoccupazioni, oltre a quella tecnica, era il ricordo per quello che è successo l'anno scorso. Dal Gay Pride dello scorso anno siamo usciti vincenti. Forse è questa la vera motivazione politica, ma la città è stata con noi, ci ha capito. A chi pensa che il Pride debba cambiare questa è la risposta».

Ieri la risposta c'è stata. C'è stata nei volti di tanti, giovani e giovanissimi soprattutto a sventolare bandiere, a baciarsi e a tenersi per mano. «Siamo coppie che chiediamo - non manca di dire Mauro - solo il diritto a veder riconosciuto il nostro amore» e che non vogliamo neppure «emigrare» per vederlo riconosciuto fuori dall'Italia. E l'Europa "osserva" l'Italia anche per il riconoscimento di diritti civili e sociali che oltrefrontiera contano. Sta di fatto che il Pride ieri ha lanciato di nuovo un altro appello alle istituzioni: quello di non chiudere gli occhi di fronte a migliaia di persone che vogliono «parità, dignità, e laicità». Sarà anche per questo che, a sorpresa, a conclusione della festa, l'inno d'Italia è stato cantato in coro da migliaia di voci. Per ricordare che vi sono valori costituzionali e profondi impossibili da cancellare.

(Liberazione, 8 Giugno 2008)

 

 

In sessantamila per salvare il clima

Checchino Antonini
Milano (nostro inviato)
 

Gli uni dovranno varare alternative energetiche, di mobilità e agricole. Gli altri si assumeranno l'impegno di « stili di vita sostenibili», così spiega anche il presidente Arci, Paolo Beni, presentando il decalogo che sottoporrà ai suoi 5mila circoli disseminati per lo stivale.

La manifestazione
con i suoi trentamila partecipanti, e altrettanti in mattinata ad animare le piazze tematiche (oltre 160 gli stand complessivi), può essere catalogata come un successo nella città che è anche la capitale dell'effetto serra. «E la Lombardia è la regione più inquinata d'Europa che sopravvive sotto una grande nube grigia che copre la pianura padana - spiega Alfio Nicotra, segretario regionale Prc della Lombardia - e i padroni padani sono i più pigri nell'innovazione, stando al risibile 0,01% di energia solare che producono». Aggiunge il consigliere regionale Mario Agostinelli (Prc): «la giunta Formigoni non s'è mai mossa contro le emissioni di Co2. La crescita della Lombardia sfora del 13% gli obiettivi di Kyoto». Il colore prevalente del corteo, che sfila dietro i cinquanta volontari travestiti da pinguini, è il giallo di Legambiente. La partecipazione milanese rivela la miriade di comitati che si battono contro ulteriori cementificazioni del territorio: no gronda (l'autostrada che collegherà le autostrade), no tangest (la nuova tangenziale) no Bre-be-mi (l'inutile Brescia-Bergamo-Milano). E l'Expo del 2015 si preannuncia come un colossale mix di speculazione, cemento, lavoro nero. «Se Legambiente è possibilista i contrari sono moltissimi», spiega Marco Armanini, bandiera no dal Molin e doppia tessera Prc di Porta Romana e Cigno Verde. «La Milano costruita sui grandi eventi ha enormi costi sociali e ambientali», ricorda anche Sergio D'Amia di Sinistra Critica.

Marciano anche i confederali,
le storiche organizzazioni ambientaliste (Wwf, Italia nostra), la Fiom, Slow Food, il Forum ambientalista, Lipu, Lav, gli studenti dell'Uds, il Vas e tutto l'ecologismo politico: dal Sole che ride a Rifondazione, PdcI, Sd, e gli ecologisti del Pd, Pcl, tra i volti noti quelli di Alfonso Gianni e Vittorio Agnoletto (Prc), dei Verdi Boato, Loredana De Petris e Bonelli. «Più che di ambientalismo parlerei di un movimento sociale che si occupa di un tema nuovo», dice ancora Cogliati Dezza. «E' un'alleanza variegata che si è composta su grandi questioni che interrogano il modello di sviluppo - aggiunge Paolo Beni. Alcuni obiettivi minimi sono possibili come quelli indicati dalla Ue su riduzione di emissioni, efficienza energetica e rinnovabili. «ll clima deve stare al centro del cambiamento della politica, ricorda Roberto Musacchio, in mattinata, ha discusso con alcuni "reduci" di quella stagione (Mattioli, Serafini, Agostinelli). «Nell'87 abbiamo sconfitto il nucleare ma non furono predisposte alternative. Ecco perché ora riprende fiato il partito atomico. L'Italia è indietro sulle rinnovabili e la legge 910 è stata travolta fino a sostenere coi Cip 6 l'energia "sporca"». «L'ambientalismo rosso-verde non può agire solo come una lobbie, deve animare l'opposizione più forte a questo governo che è tutto dentro un paradigma sviluppista».

Insomma, si direbbe che buone pratiche e politica si siano incontrate per le strade di Milano. A voler trovare un limite l'assenza delle comunità che resistono alle devastazioni del loro territorio. La Val Susa, Civitavecchia No Coke e Chiaiano solo per fare degli esempi. «O si crea questa connessione - osserva Walter Mancini, responsabile Prc per le vertenze territoriali - o attecchisce il grillismo».

S'è detto del contributo degli agricoltori (Cia, Coldiretti, eccetera): «L'agricoltura incide per il 25% sulle emissioni totali di Co2 - spiega Andrea Ferrante dell'Aiab - Kyoto 2 dovrebbe dare un contributo per la mitigazione premiando modelli alternativi. E pensando alle prime vittime dei cambiamenti climatici, i contadini del sud del mondo, i popoli indigeni che conservano la foresta primaria che ancora non è nell'agenda di Kyoto». Della lotta contro le multinazionali dell'agroindustria, del ruolo dei popoli nomadi e del pastoralismo per arginare gli agrocarburanti e sfamare tutti parleranno dal palco una donna iraniana e un produttore argentino a nome del Forum Terra Preda che prende il nome dalla fertilissima terra nera amazzonica. Sono loro i pinguini umani, i primi a soffrire per gli effetti del liberismo sul clima.


(Liberazione, 8 Giugno 2008)
 

«Mi sento l'ultimo superstite ero in montagna e a Mauthausen.Ora tocca a voi difendere la libertà»

Raimondo Ricci, vicepresidente nazionale dell'associazione partigiani

 

Tonino Bucci

Oggi ha 87 anni, portati con vitalità. Interesse per la politica, acume, memoria storica, esercizio dell'eloquio - dote maturata nel corso della sua lunga professione di avvocato. Emozioni, nella sua vita, non ne sono mancate. E' nato nel 1921 a Imperia, anche se la sua città adottiva è Genova dove risiede tuttora. Quando era poco più che ventenne Raimondo Ricci era ufficiale di marina, «addetto alle comunicazioni in codice». Alle spalle aveva già un brillante corso di studi, «mi ero iscritto alla Scuola normale superiore di Pisa a diciott'anni. I miei genitori erano già morti entrambi. Mio padre, magistrato, era morto in Africa. Ero praticamente solo». Assiste all'8 settembre da una prospettiva particolare. «Pensi che ascoltai via radio le operazioni dei tedeschi mentre occupavano il porto di Genova».
La trafila che seguirà è simile a quelli di tanti altri compagni di generazione all'indomani dell'8 settembre 1943: lo sbandamento, i primi tentativi di organizzare la Resistenza armata all'esercito nazista. La montagna, il carcere, la prigionia, le percosse e la tortura, la deportazione. Dopo la guerra si iscriverà al Pci. E farà l'avvocato in prima linea. Gli toccherà difendere tanti ex partigiani da una persecuzione che oggi, forse, abbiamo dimenticato. «Negli anni della Guerra fredda erano guardati con sospetto. Molti subirono processi perché le loro azioni di lotta venivano considerate crimini». Raimondo Ricci è dirigente nazionale- vicepresidente vicario, per l'esattezza - dell'Anpi, l'Associazione nazionale dei partigiani italiani che da domani terrà a Gattatico (Reggio Emilia), nel Museo Cervi, la sua prima festa nazionale.

Cominciamo dall'inizio. Dov'era l'8 settembre 1943?
Ormai sono tra i pochi superstiti ancora in vita in Italia. Sono stato in galera, in campo di concentramento nazista. Ne ho passati di tutti i colori. Come è cominciata? Ero studente alla Normale di Pisa quando sono stato richiamato sotto le armi, nel '41. Dopo il corso sono stato designato ufficiale di marina. L'8 settembre ero al mio comando, quello di Imperia. Dall'ufficio cifra ho seguito l'occupazione tedesca del comando Marina di Genova. Il giorno dopo i tedeschi sono arrivati a Imperia. L'esercito italiano era allo sbando. Mancavano gli ordini. Dalla Francia arrivavano soldati italiani in fuga.

E lei decise di andare in montagna?
Fin dai primi giorni in quel marasma mi sono dato da fare, insieme a tanti altri amici, per organizzare un movimento di resistenza armata all'occupazione tedesca. Partivamo da zero. Le prime azioni erano assalti a caserme abbandonate. Ci siamo impossessati di armi, di qualche mezzo meccanico e le abbiamo portate in montagna. Io presi un camioncino di armi dalla Capitaneria. Non è che ci fosse una vera e propria organizzazione.Eravamo bande spontanee.

Come succede che viene arrestato?
A metà dicembra del '43 ero diventato commissario di una formazione. Per questo dovetti andare a Genova per prendere contatti con il Comitato di liberazione nazionale della Liguria che stava nascendo proprio allora. Partii in treno e cercai di farlo nella maniera più riservata possibile. Ma qualcuno deve avermi notato e aver riferito del viaggio. Quando tornai a Imperia, dopo tre giorni, fui fermato vicino alla stazione da gente armata della Guardia nazionale della Repubblica di Salò. Mi arrestarono assieme a mia sorella. Lei fu liberata dopo qualche giorno. Io invece venni interrogato perché volevano conoscere i dettagli dell'organizzazione armata in montagna. Fui pestato a sangue, ma non torturato in quell'occasione.

Quanto rimase in carcere?
Fino al febbraio del '44. Poi i fascisti mi consegnarono alla Gestapo. Mi trasferirono nel carcere di Savona, poi in quello di Imperia, nelle mani delle Ss. Comandava tutto il tenente colonnello Sigfrid Hengel che solo di recente, nel '99, è stato condannato all'ergastolo per eccidio. E io ho testimoniato al processo.

Lei è stato deportato in Germania, a Mauthausen. Cosa ricorda?
Ai primi di giugno mi trasferirono al campo di smistamento di Fossoli di Carpi. Ci rimasi una decina di giorni, poi venni deportato con un vagone piombato al campo di sterminio di Mauthausen. Ricordo la fatica del viaggio. Uno del nostro vagone riuscì anche a scappare gettandosi da un piccolo spiraglio del finestrino. Ignoravamo cosa ci aspettava. Arrivammo a Mauthausen di notte. Ci tolsero quel poco che eravamo riusciti a portare con noi, oggetti, abiti, valigie. Un modo per privarti della tua personalità. Io ho sempre faticato a raccontare la mia esperienza di deportato perché il lager è una sorta di mondo al contrario. Ho sempre avuto paura di non essere creduto.

Com'era organizzato Mauthausen?
Era un campo di sterminio. Funzionava anche come campo di lavoro. Vicino c'era una cava di pietra. Ma si trattava principalmente di un campo per l'eliminazione dei detenuti. Esistevano anche campi d'internamento per prigionieri militari, ma quelli erano tutt'altra cosa. Appena arrivammo ci fecero fare la doccia, prima acqua bollente poi acqua gelida. Mauthausen era in realtà la centrale di un sistema di quaranta campi collegati. Fui destinato al lavoro massacrante nella cava di pietra. Bastava che aumentassero i carichi in spalla per eliminarti. Di lì passarono anche gli ufficiali tedeschi coinvolti nell'attentato a Hitler del luglio '44. Io venni trasferito poi nel campo dipendente di Grossraming per la costruzione di una centrale idroelettrica. La fame ci assillava. Eravamo destinati alla morte. Sono sopravvissuto soltanto perché il campo fu smantellato a settembre. Tornai a Mauthausen. Ho passato di tutto, torture, pestaggi, lavoro. Ho visto morire gli altri. Nel campo arrivarono anche gli spagnoli reduci dalla disfatta della Repubblica. Fra loro c'era un grande spirito di solidarietà.

Quando fu liberato lei?
Le Ss abbandonarono il campo il 2 maggio del '45. Eravamo ridotti tutti a larve umane. Nel campo si era formato un comitato di liberazione clandestino. E' qui che conobbi Giuliano Pajetta. Poi arrivarono gli americani e il comitato prese funzioni organizzative, tipo la distribuzione delle vettovaglie.

Per voi ex partigiani le cose non sono state semplici neanche una volta tornati in Italia. Nel '48 vi guardavano con sospetto. O no?
L'Anpi si è battuta contro questo clima. Ci sono stati periodi di persecuzione antipartigiana. Avere partecipato alla Resistenza diventava motivo di sospetto. Nel '47 si ruppe l'unità nazionale antifascista. Era la guerra fredda. Iniziò la conventio ad excludendum dei comunisti dal governo. Io allora ero un giovane avvocato. Difendevo i giovani partigiani perseguiti dalla polizia e dalle autorità giudiziarie per le azioni che avevano compiuto durante la lotta di Liberazione. Come fossero dei criminali.

E intanto in Italia si riformava un partito neofascista...
C'era un rigurgito di fascismo. Ai tempi del governo Tambroni l'Msi aveva deciso di tenere il suo congresso proprio a Genova. Ci fu una mobilitazione di tutta la sinistra, del sindacato e, in particolare, dell'Anpi. Era un tentativo dei fascisti di legittimarsi a governare l'Italia. Lo impedimmo.

Ma oggi non sono riusciti a legittimarlo, il fascismo, tra le altre storie politiche di questo paese?
In Italia c'è stata una corrente di revisionismo storico per delegittimare la Resistenza. Ma non credo che abbia avuto successo. Anche il Presidente della Camera Fini ha riconosciuto il valore fondativo del 25 aprile. Bisogna prendere queste aperture sempre con la dovuta cautela perché in Italia le memorie sono ancora divise. Però il riconoscimento della Resistenza va tenuto in seria considerazione. E' un processo lungo.
A suo tempo sono stato molto critico con chi in modo inopportuno ha parlato del riconoscimento dei cosiddetti ragazzi di Salò. Però sono anche molto convinto che in Italia occorreva una riconciliazione nazionale. Il che non significa che deve esserci una memoria unica condivisa. Ma un riconoscimento storico dei principi e dei risultati della Resistenza.


Liberazione 19/06/2008 

Di chi è L'Europa

Prova a rispondere Valerio Castronovo, storico contemporaneo oltre che studioso "europeista"

Che ne sarà dell'Unione europea dopo la bocciatura del trattato di Lisbona nel referendum irlandese? E quel voto va interpretato soltanto come riflusso identitario o è anche effetto della protesta dei ceti sociali deboli? Prova a rispondere Valerio Castronovo, storico contemporaneo oltre che studioso "europeista". Al tema ha dedicato vari studi, fra i quali L'avventura dell'unità europea. Una sfida con la storia e il futuro (edito per Einaudi nel 2004).

Il voto irlandese dimostra che qualcosa non ha funzionato. La costruzione europea non solo non ha risolto il rapporto tra nazionalismo e dimensione sovranazionale, ma ha addirittura favorito il risveglio dei localismi. Non le sembra?
Tutto comincia dal momento in cui si è deciso, sia pure con molte ragioni, di ammettere i paesi orientali dell'ex blocco comunista nell'Unione europea prima di definire le norme del trattato costituzionale. Avrebbero dovuto essere i fondatori della vecchia guardia - Francia e Germania in primo luogo - a scrivere la Costituzione europea prima che entrassero, via via, tutti gli altri. Bene o male avevano raggiunto, pur con alcune reticenze degli inglesi, una sostanziale identità di vedute con il varo del primo parlamento alle elezioni del 10 giugno 1979. Da allora quel gruppo ha irrobustito anche gli organismi di vertice, come la Commissione, e allargato le competenze del parlamento. L'inserimento degli altri paesi avrebbe dovuto avvenire dopo aver definito le norme costituzionali. Su questo dilemma si è discusso a lungo. Per ragioni storiche e di opportunità, per spingere i paesi dell'est ad avvicinarsi agli standard economici di quelli occidentali, si è scelto di dare un segnale e farli entrare rapidamente nell'Ue. Questo orientamento ha avuto la meglio sull'ipotesi di ingresso graduale. Si è pensato che più paesi sarebbero entrati e più sarebbe cresciuto il peso politico dell'Europa nello scenario internazionale. Queste sono state le motivazioni che hanno indotto la vecchia guardia ad aprire le porte. Ma subito dopo l'ingresso dei nuovi paesi, Spagna e Polonia in prima fila, sono iniziate le divergenze nei confronti dell'asse franco-tedesco. Già a Nizza nel 2000 erano venuti fuori i problemi. In più è stata decisa la norma dell'unanimità sulle questioni politiche e costituzionali che consente a un solo paese di bloccare il processo.

Però, mi scusi, la battuta d'arresto si è verificato non in un paese orientale, ma in una periferia dell'Europa occidentale. Vuol dire che l'integrazione europea fa cilecca anche a casa nostra. O no?
In effetti, già nell'Europa dei quindici erano latenti motivi di divergenza fra l'Inghilterra e l'Irlanda, da un lato, e la vecchia guardia continentale, dall'altro. Si sapeva che l'allargamento sarebbe stato pieno di rischi e incognite. I problemi sono esplosi quando Francia e Olanda nei referendum del 2005 hanno detto no al Trattato costituzionale. Lì si è spaccato il binomio franco-tedesco che più aveva spinto per l'integrazione monetaria ed economica - soprattutto per iniziativa della Bundesbank e di Kohl. La Francia ha sempre cercato una sfera di autonomia dagli Usa, ma non ha mai digerito del tutto il modello federalista più caro ai tedeschi. L'Europa federale è entrata in contrasto con il retaggio nazionalista della Francia. I francesi hanno temuto la perdita del primato culturale. Ma soprattutto la globalizzazione incute paura. Spaventa la previsione che possa esserci un'ondata di immigrazione dai paesi dell'est.

C'è il rischio che la nuova destra possa cavalcare l'insicurezza diffusa offrendo la sponda della xenofobia?
Non c'è dubbio. C'è stato un avanzamento di una nuova destra "etno-nazionale". Non c'è solo la vecchia destra estrema di Le Pen che è sempre stata contraria all'integrazione europea. In Francia come in Danimarca e in Olanda avanzano movimenti etnopopulisti che sono insofferenti tanto rispetto all'Europa quanto alla stessa integrazione economica. In questo modo raccolgono la protesta per un modello europeo che non ha mai saputo proporre un governo dell'economia, come già ebbero a dire i socialisti francesi di Jospin. L'Europa si è fermata alle istituzioni finanziarie. Non esiste un indirizzo unitario né in politica economica né in politica fiscale né in politica estera. I nodi vengono al pettine. E' cresciuta la sensazione che l'Ue sia governata da una sorta di "eurocrazia", da una burocrazia avulsa dai bisogni concreti dei popoli.

Non è riduttivo però equiparare del tutto i referendum irlandese, francese e olandese a un voto di destra? Non è anche il segno di una protesta sociale contro un'Europa che ha smantellato la spesa pubblica in nome del rigore monetarista?
Manca un governo dell'economia. L'Europa comunitaria ha le sue responsabilità anche per la crisi alimentare dei paesi del Terzo Mondo poiché mantiene le sovvenzioni e i dazi doganali sull'importazione dei prodotti agricoli. La Banca centrale europea è stata istituita con il compito di impedire l'inflazione e di garantire la stabilità dei prezzi. Forse questo oggi ci mantiene al riparo dal rincaro dei prodotti petroliferi e di altre materie prime. D'altra parte, il rafforzamento dell'euro incide negativamente sulle esportazioni. E' mancato un sistema che potesse conciliare lo sviluppo economico con l'equità sociale. L'Ue non ha saputo trovare nuovi ammortizzatori sociali e nuove politiche del lavoro fondate anche sulla formazione e sulla riqualificazione. Ecco perché i ceti deboli si sono trovati senza difese dinanzi ai colpi della globalizzazione. Per non parlare di incentivi alla ricerca che sono del tutto assenti. Su questo terreno l'Europa non è ancora nata. L'unico parametro è quello di Maastricht del tre per cento del rapporto tra bilancio e spesa pubblica. Da qui nasce il malessere sociale e l'aumento della disoccupazione. Sarà anche a causa della competizione asiatica e della rivoluzione informatica, ma non c'è dubbio che manchi una politica di gestione dei problemi sociali. I paesi europei vanno avanti in ordine sparso. L'Ue si deve riaggiornare rispetto ai principi che si è data nel '98. A quel tempo c'era tutt'altro scenario. Nessuno prevedeva la crisi della globalizzazione. Solo una parte della socialdemocrazia - i francesi di Jospin - chiedeva di coniugare le politiche di risanamento dei bilanci pubblici con politiche di protezione sociale.

La socialdemocrazia ha investito nell'Europa con la speranza che avrebbe costruito un nuovo welfare. Da questo punto di vista l'Ue ha fallito completamente. O no?
I socialisti pensavano a nuovi sistemi di protezione diversi dal welfare tradizionale che distribuiva benefici anche a ceti che deboli non erano. Invece si è finito col non concepire nessun modello di governo sociale. Navighiamo sulle sabbie mobili. Hanno saputo approfittarne i movimenti di destra che sono riusciti a mescolare la difesa dei localismi e delle identità con la protesta sociale. Mentre la sinistra che ha sposato la causa europeista è diventata un capro espiatorio per la crisi in cui ci troviamo.

Ma un'altra parte della sinistra, quella radicale, non si è mai stancata di ripetere che questa era solo l'Europa del mercato e delle banche. Non le pare?
Sì, ma la destra si è mossa in maniera più efficace. Ha toccato le corde della paura della gente comune, i timori di perdere la propria identità. Ovunque ci sono movimenti come la Lega che condizionano l'opinione pubblica. La sinistra radicale ha sempre sostenuto che l'integrazione europea andasse costruita dal basso. Si è sempre dichiarata a favore di una democrazia partecipata e di un'Europa dei popoli. Ma su questo versante la nuova destra ha più carte in mano. Gioca su elementi populistici oltre che di reale disagio. E sul richiamo all'identità. L'Irlanda ha avuto una crescita economica grazie anche ai fondi europei. Ma non è bastata a conquistare consensi a favore dell'Europa. Il motivo identitario ha giocato molto nell'esito del referendum irlandese. Pensiamo all'attacco alla Costituzione europea fatto in nome della difesa delle radici religiose e cristiane dell'Occidente. Nel No c'è sicuramente anche un riflusso identitario, un ripiegamento sui valori della tradizione.

Tonino Bucci , Liberazione 17/06/2008

Perchè è giusto dire NO al trattato di lisbona

Franco Russo


Ogniqualvolta i popoli sono chiamati a pronunciarsi sull'Europa dei governi, quella del neoliberismo e dei Trattati internazionali che hanno istituito una nuova "costituzione" fondata sul mercato al posto della democrazia e dei diritti della persona, ogni volta hanno detto "No". Ora sono stati i cittadini dell'Irlanda che nel referendum sull'approvazione del Trattato di Lisbona hanno respinto a maggioranza netta le scelte dei governi, interessati solo all'accrescimento dei propri poteri, quelle della tecnocrazia, dell'impresa e della finanza. Il Trattato di Lisbona non sana il deficit democratico che l'Unione europea si trascina fin dalla nascita, per questo ora i cittadini dell'Irlanda lo hanno bocciato, così come nel maggio-giugno del 2005 furono i francesi e gli olandesi a respingere il Trattato costituzionale, sempre deciso in una Conferenza intergovernativa.
E' stato detto "No" ai governi europei che agiscono come Signori dei Trattati, che escludono dai processi decisionali i cittadini e le loro rappresentanze democratiche.
Il Trattato di Lisbona istituisce la figura del Presidente del Consiglio europeo e quella del "ministro degli esteri", delega agli organi dell'Unione la competenza in campi delicatissimi come la politica estera, militare, della giustizia e dell'emigrazione. Non interviene per ampliare i poteri legislativi e di controllo del Parlamento europeo, relegato a organo con diritto di veto su ben definite materie o addirittura di mera consultazione come avviene proprio nei campi della politica estera e militare in cui i governi acquistano nuove prerogative cancellando le competenze degli stessi Parlamenti nazionali.
Il Trattato di Lisbona persevera nella linea di svuotamento della democrazia parlamentare mentre concentra i poteri nelle mani dei governi, che a Bruxelles fungono da organo legislativo. Sì, perché è bene sempre ricordare che, nonostante Montesquieu e l'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti del lontano 1789, nell'Unione europea gli esecutivi sono organo legislativo, fanno le leggi - chiamati regolamenti - immediatamente applicabili ai cittadini senza neppure la mediazione dei Parlamenti nazionali; sì, nell'Europa del costituzionalismo, il Parlamento europeo non ha il potere di iniziativa legislativa che è di competenza esclusiva della Commissione.
Il Trattato di Lisbona non cambia in nulla lo Statuto della Banca centrale europea che decide la politica monetaria secondo i parametri di Maastricht tesi a controllare le politiche di bilancio e a garantire la stabilità dei prezzi, che fungono da sferza per la deregolamentazione del mercato del lavoro e per la ristrutturazione produttiva, cioè la delocalizzazione, e per i bassi salari.
Il Trattato di Lisbona non ha cambiato l'asse intorno a cui ruota la politica economica dell'Unione: la competitività nel mercato delle merci e dei servizi, le privatizzazioni dei beni pubblici. Un Consiglio dei ministri decide di innalzare a 65 ore il tempo di lavoro settimanale da contrattare per di più individualmente così da rompere il limite storico delle 48 ore ma dando anche una picconata al contratto collettivo di lavoro. Un Consiglio dei ministri decide la detenzione dei migranti fino a 18 mesi senza garanzie processuali. L'Unione europea è la punta di lancia del neoliberismo. Questa è l'Europa che i popoli non vogliono.
Le reazioni delle élites europee di fronte al voto irlandese sono assolutamente stupefacenti. Innanzitutto lo stile dell'argomentazione. L'Irlanda è l'1% della popolazione dell'Unione, dunque piccola cosa: la parità tra gli Stati, cardine del diritto internazionale, viene saltata a piè pari e si instaura una gerarchia tra Stati che contano e quelli che non contano. Si dimentica che a fondamento dell'Unione europea ci sono i Trattati che sono firmati dagli Stati e che essi entrano in vigore, secondo le regole del diritto internazionale, solo se tutti gli Stati li approvano secondo le loro rispettive norme costituzionali.
La Francia, per esempio, ha fatto in modo da evitare di nuovo la pronuncia popolare per timore di un rinnovato voto contrario. I governi temono i popoli: segno di decadimento della democrazia e di volontà di affermare il potere delle élites dirigenti. Queste hanno reagito con spocchia e disappunto: i popoli non accettano i Trattati decisi dai governi, cancelliamo i popoli - questa per esempio la risposta di Tommaso Padoa-Schioppa. La sua arroganza e presunzione sono ben note, non smentite neppure in questa occasione. Sul Corriere della Sera mette in dubbio le capacità intellettive dei cittadini e infatti afferma che per i Trattati internazionali lo strumento del referendum non è adatto: materie troppo difficili, da lasciare agli esperti, ai coltivatori dei misteri diplomatici e del mercato. Certo l'articolo 75 della Costituzione italiana sottrae la materia dei Trattati internazionali al referendum, a differenza di altri ordinamenti come quello irlandese o francese. Senza entrare nel merito della ragionevolezza dell'articolo 75, vorrei ricordare che nel 1989 il Parlamento italiano votò una legge costituzionale per consentire un referendum di indirizzo affinché il Parlamento europeo fosse investito del compito di elaborare una Costituzione; che i Trattati, secondo la giurisprudenza della stessa Corte del Lussemburgo, sono la "Costituzione" dell'Unione europea; che la Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing elaborò un Trattato costituzionale perché avvertì l'esigenza di una qualche costituzione date le competenze ormai vastissime dell'Unione, sia pure enumerate dai Trattati. Sulla Costituzione non possono che decidere i popoli.
Spinelli nel 1984 e poi Herman nel 1994 fecero approvare dal Parlamento europeo due testi costituzionali, rimasti lettera morta a causa della sua non competenza che il referendum d'indirizzo italiano mirava a superare. Ciò che Padoa-Schioppa non vuole accettare è che i popoli possano decidere sui fondamenti dell'Europa, dimensione quotidiana del loro vivere associato, e, soprattutto, non vuole prendere atto che si è venuto formando un europeismo di sinistra che ha superato i ritardi culturali del PCI e anche del PSI degli anni '50, quando i gruppi dirigenti cattolici e liberali avviarono dall'alto la costruzione europea. Certo, esistono settori in Europa in cui sono vive tendenze al ritorno nei confini dello Stato-nazione o in cui prevale l'antieuropeismo, che si nutre dell'avversione a Bruxelles per le sue politiche neoliberiste e per le sue modalità decisionali chiuse, dove dominano i metodi della "comitologia" segreta e della governance.
Il "No" di Rifondazione comunista-Sinistra europea al Trattato di Lisbona è un "No" che si ispira al disegno politico di fondare un'altra Europa, quella pacifista e della cittadinanza democratica e sociale. Intorno ad esso è bene organizzare una campagna di opinione per premere affinché il Parlamento italiano riproponga il progetto sotteso al referendum di indirizzo del 1989 per giungere a una democrazia costituzionale europea.
Prevalente nel nostro tempo è un movimento popolare, di sinistra, convintamente europeista. Oggi si confrontano non l'europeismo delle classi dirigenti e l'antieuropeismo dei popoli; no, oggi si confrontano due visioni dell'Europa: quella dei governi che hanno accentrato il potere nelle proprie mani e in quelle della loro tecnocrazia, e la visione dei popoli che vogliono un'Europa democratica e sociale, aperta al mondo, basata sulla cittadinanza transnazionale. E' un nuovo europeismo, non più elitario ma democratico, condiviso da milioni di persone. Per questo Padoa-Schioppa sbaglia nel giudicare come retrivo, chiuso nella difesa identitaria, il voto irlandese, e prima quello dei francesi e degli olandesi.
Lo stesso Presidente della Repubblica è ingeneroso nel giudizio, lui così appassionato ed esperto europeista. Al centro della questione c'è il deficit democratico, per questo promuovere un disegno politico che spacca l'Unione, spingendo i paesi "volenterosi" a una sorta di "cooperazione costituzionale rafforzata", significa distruggere una visione democratica dell'Europa, l'unica che la può salvare dal naufragio dei governi.
Le classi dirigenti devono prendere atto che il metodo funzionalistico e intergovernativo, se è stato in grado di costruire il mercato unico, non ha la forza politica di fondare l'Europa dei cittadini: il disegno di Monnet in questo ha fallito - il mercato non fonderà l'Europa politica che ha bisogno di una Costituzione democraticamente fondata con la partecipazione dei popoli.
La strada è quella indicata da Spinelli: il Parlamento europeo diventi l'organo di elaborazione della Costituzione anche attraverso un dialogo con i Parlamenti nazionali e con la società civile, testo da sottoporre a referendum europeo. Serve un processo politico che coinvolga i popoli e i loro rappresentanti.
Si va formando un popolo europeo, sempre assente nei progetti delle élites liberali: è quello che si delinea nei Social forum europeo, da quello di Firenze nel 2002 a Malmoe nel prossimo settembre. Decine e decine di migliaia di persone dell'Est e dell'Ovest - migranti, donne, lavoratori, precari, giovani partecipano seminari, assemblee, iniziative e campagne sull'Europa vanno forgiando il popolo europeo, vero e unico soggetto della creazione dell'altra Europa.


17/06/2008

Tutte migranti! Per le Sommosse prove tecniche di organizzazione

 

Comunicazione, violenza, rapporto con le donne non indigene. Il convegno delle femministe del 24 novembre a Bologna

Beatrice Busi
Bologna
"Sommosse", la rete nazionale di singole, gruppi e associazioni lesbiche e femministe, nata dopo la manifestazione nazionale delle 150mila contro la violenza maschile del 24 novembre scorso, è in pieno processo costituente. E' l'ora del consolidamento del percorso ma anche della discussione sulle forme dell'organizzazione e dell'agire politico comune. Per farlo, sabato e domenica scorsi, si sono date appuntamento nella Bologna dello "sceriffo" Cofferati più di duecento donne, un'altra intensa "due giorni", dopo quella che si era svolta a Roma il 23 e il 24 febbraio. E che sabato ha dato vita anche ad un corteo notturno contro la violenza per le vie del centro, gemellato con la marche de nuit di Parigi e un'analoga iniziativa a Bari.
La Flat bolognese (Femministe e Lesbiche ai Tavoli) si era articolata nella giornata in tre ambiti di discussione (Violenza maschile; Antirazzismo, antifascismo e antisessismo; Comunicazione), nei quali si è fatto il punto sullo stato dell'arte del "sommovimento lesbico e femminista" per tentare di trarne nuove indicazioni di percorso da discutere nell'assemblea plenaria di domenica.
Da un governo all'altro, da un pacchetto sicurezza all'altro, il no all'uso retorico della violenza contro le donne come pretesto per politiche meramente repressive che aveva caratterizzato la manifestazione dello scorso novembre è stato ribadito con forza, denunciando anche la recrudescenza del razzismo istituzionale, colpevole di alimentare i fenomeni di intolleranza sociale.
Proprio a partire da questa premessa, il gruppo sulla violenza maschile, si è interrogato sulle strategie e gli strumenti da adottare per imporre come questione politica improrogabile la mattanza delle donne che avviene quotidianamente soprattutto all'interno delle relazioni familiari, indicando come prossimo appuntamento il 19 giugno al tribunale di Perugia per il "femminicidio" di Barbara Cicioni, uccisa dal marito il 25 maggio del 2007. La violenza è sia l'espressione dei tentativi di disciplinamento dei corpi delle donne che strumento di assoggettamento ai ruoli sociali tradizionalmente definiti nella famiglia patriarcale. La precarietà e le politiche familiste, che cercano di rafforzare la divisione sessuale del lavoro, ne sono l'altra faccia. Come si legge nel documento di sintesi presentato nella plenaria, «le politiche familiste e securitarie sono antifemministe, in quanto ricacciano le donne nelle case e spacciano per sicurezza quella che è oppressione: i nostri corpi non saranno mai strumenti di repressione e xenofobia».
Ma come si risponde alle politiche securitarie e repressive? L'indicazione condivisa emersa dalla due giorni, è che la mobilitazione da sola non basta, che, in questo clima politico e sociale, diventa necessario impegnarsi nella costruzione di relazioni con le donne migranti. Relazioni che, come emerge dalla discussione nel gruppo su Antirazzismo, antifascismo e antisessismo, non siano improntate alla solidarietà, bensì al riconoscimento reciproco tra donne a partire dal "posizionamento" culturale e sociale di ciascuna, ma che hanno come denominatore comune l'esperienza della violenza maschile in famiglia e lo sfruttamento del lavoro di cura, sempre più esternalizzato ed appaltato alle donne migranti. Una relazione aperta dunque, nella quale le pratiche per una lotta comune discendano dalla pratica dell'ascolto. Un percorso che va innescato subito a partire dalle reti locali e che ha come obiettivo la costruzione, insieme alle migranti, della manifestazione del 22 novembre prossimo, data scelta ancora una volta ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
In vista della manifestazione, ma non solo, le "sommosse bolognesi" stanno valutando le forme della partecipazione alla manifestazione dei migranti che si svolgerà il 5 luglio a Bologna (www.coordinamentomigranti.splinder.com), mentre l'assemblea delle "sommosse" romane sta già preparando per settembre una settimana di mobilitazione sul pacchetto sicurezza.
Tutte, ciascuna sui propri territori, metteranno a punto campagne di informazione e le indicazioni sul "metodo" sono state discusse nel gruppo Comunicazione. Per essere protagoniste e non solo antagoniste, è indispensabile "fare media": produrre immaginario per uscire dal modello della controinformazione, aprire canali d'informazione autonomi, utilizzando server indipendenti e free software, ma anche tessendo relazioni con le donne (soprattutto con le precarie) che lavorano nei media mainstream.
La ricerca di un'identità per "Sommosse" è comunque rimasta aperta, sospesa tra l'idea di una rete di coordinamento che rispetti l'autonomia delle soggettività e dei territori e la tendenza alla costruzione di un soggetto politico caratterizzato da pratiche omogenee.
Una ricerca, attraversata dalla discussione mai sopita sul separatismo, sia come pratica di piazza che come forma di organizzazione.
Per queste prove tecniche di democrazia radicale non rappresentativa, le indicazioni più interessanti sono arrivate proprio dal gruppo sulla comunicazione, a partire dalla matura consapevolezza che "fare media" è una pratica politica, non riducibile semplicemente alla produzione di strumenti di "servizio". Nessuna delega, superamento del metodo della maggioranza verso il metodo del consenso: tenere a freno la tensione alla sintesi, restituzione della complessità e rispetto delle differenze, garantire il massimo dell'inclusione possibile per ogni decisione, creare uno spazio aperto di soggettivazione politica nella ricerca costante di equilibri sempre nuovi. Un laboratorio di faticosa sperimentazione di metodi e pratiche politiche sul quale vale la pena di scommettere.


Liberazione 17/06/2008

 

 

Hey! La mia matita ha fatto Crack!

Emanuela del Frate
Crack! anno quarto. Se c'è qualcuno che pensa ancora che il fumetto sia morto, alzi la mano. E poi si prenda almeno una giornata per lasciarsi trasportare nell'immaginifico mondo sotterraneo del csoa Forte Prenestino dove, da domani a domenica 22 giugno, va in scena la quarta edizione di quel festival, di fumetto e arte disegnata e stampata, che da anni sta solleticando le fantasie di un'intera generazione di artisti, indipendenti e non, conosciuti e meno noti. E quest'anno le celle dei sotterranei che lo ospitano sono colme fino all'inverosimile. Un'esperienza preziosa quella di Crack! che verte tutta su di un metodo mai sperimentato prima nell'ambito del fumetto. «La nostra storia» ci racconta Valerio Bindi, architetto degli Sciatto - il laboratorio di costrudistruzioni "spercializzato" in luoghi di confine sociali e urbani - professore universitario, fumettista storico dell'underground italiano e, soprattutto, una delle anime che ha creduto sin dall'inizio a questo progetto, «ruota tutta intorno alla mailing list animate@inventati.org. La abbiamo aperta per gioco e, già dopo un anno, si è dimostrata strumento prezioso e indispensabile. E' qui che nasce il festival, qui che ci si coordina con tutti i partecipanti. A Crack! non ci sono selezioni, non siamo una vetrina, ma un festival autoconvocato, l'unico nel suo genere». Con un meccanismo organizzativo così particolare, viene da chiedersi come possa garantirsi quella qualità dei lavori che invece contraddistingue ogni edizione. «Ci siamo accorti che si innesca un meccanismo virtuoso di autolivellamento. Non selezioniamo, ma nello stesso tempo facciamo alcuni inviti ad autori internazionali che ci interessano. Permettiamo così di far incontrare chi è alle prime armi con chi invece di strada ne ha già fatta. Un incontro che funge a ognuno da stimolo per migliorare il proprio lavoro e che si configura come una vera e propria operazione culturale sul fumetto italiano che vediamo crescere e migliorare di anno in anno. Ma c'è un'altra cosa fondamentale, questo festival è puro networking. Qui ci si conosce, ci si incontra, si chiacchiera, ci si scambia i propri lavori e le esperienze, e ogni anno, da qui, nascono sempre nuovi progetti, nuove intersezioni e collaborazioni, anche internazionali che non passano necessariamente attraverso Crack!». Eppure le interazioni più interessanti passano proprio dal festival, basta pensare alle pubblicazioni che sono state prodotte in questi anni. Come il catalogo autoprodotto dell'edizione 2004, dove si sono riversati tutti gli autori italiani, e dove si è sviluppato l'interessante esperimento del fumetto realizzato a più mani seguendo la sceneggiatura appositamente scritta dalla giovane scrittrice Antonella Lattanzi. L'anno scorso è stata poi la volta del numero, tutto in italiano, prodotto dagli svedesi della rivista Galago , gli stessi che quest'anno hanno realizzato il libro di fumetti Ponti , prodotto a metà strada tra la Svezia e l'Italia. «Non è stato uno scambio economico» continua Valerio, «ma culturale. Una connessione che ha permesso ai nostri disegni di farsi conoscere in Svezia e ai loro nel nostro paese. Ci piace pensarlo come un numero zero, un'esperienza che vorremmo riproporre con altri gruppi di altre parti del mondo». E, a guardare il ricco carnet di ospiti internazionali, non c'è che l'imbarazzo della scelta. «Sì, noi abbiamo invitato fumettisti come il serbo Zograf, artisti come i francesi di Le dernier cri, e ci siamo poi accorti che Crack! stava diventando un'esperienza virale. Tanto che quest'anno i croati della webzine Komikaze, ci hanno stupito mandandoci la mail "We must be on Crack!"». E dopo di loro sono arrivati i portoghesi di Chili Com Carne che sono andati ad affiancarsi agli altri internazionali invitati come Seth Tobocman, che torna in Italia dagli Usa dopo anni, la giovanissima Maya Mihindou, pantera del Gabon, il nutrito gruppo di giovani di Cape Town e il writer Popay dalla Francia. Già, non solo fumetti, ma anche writer, serigrafi, animatori, artigiani dell'abbigliamento e molte altre tecniche ancora trovano spazio a Crack!. «Il festival si è sempre caratterizzato come multidisciplinare, il fumetto è solo parte di altri tipi di linguaggi che lavorano con le immagini. E questo avviene anche perché siamo convinti che il fumetto possa morire solo se confinato all'interno di un unico genere, mentre la forza sta proprio nel fatto che le sue radici possono essere rintracciate in un'animazione, in un sito internet, così come nella narrativa o nei film. Un linguaggio di interscambio che non si deve per forza concretizzare in una striscia o in un albo. E a Crack facciamo proprio questo, diamo modo di mostrare i lavori di chi lo usa all'interno del proprio media». Non a caso quest'anno è ricco il programma di laboratori che vanno da quello, organizzato da Trauma studio, che punta a mostrare le interazioni tra animazione, disegno e vjing - i flussi video legati a tappeti musicali -, a quello di serigrafia live dei tedeschi di Nostylefuckers, passando per quello di clay-animation - animazione in plastilina - tenuto da Stefano Argentero. Avendo davanti agli occhi tutta questa ricchezza non si può far a meno di chiedere a Valerio come mai, però, l'esperienza italiana del fumetto negli ultimi anni sembrava essere arrivata davanti a un vicolo cieco. «Il problema è che si è cercato di spostare il fumetto dal campo della narrazione alle gallerie, costringendolo in una definizione che vede ancora l'arte messa su di un piedistallo, uccidendone così la capacità di raccontare. All'estero la situazione è diversa proprio per questo, tanto che in Europa si sta affermando un nuovo genere che non punta tanto sulla tecnica del segno quanto sulle storie che è capace di raccontare. Oltre alle biografie si sta sviluppando una nuova tecnica, simile a quella della narrativa di Philopat e di Balestrini. Gli autori si fanno raccontare storie di vita, di guerra, di mondi lontani da noi e poi le riportano sulla carta narrandole con il proprio segno. E' questo che dobbiamo fare in Italia, riacquistare la potenza della narrazione. E' un segno che abbiamo voluto dare chiamando l'edizione di quest'anno Panther. Un tributo a Emory Douglas, l'illustratore delle Pantere nere, che ha sempre affermato la necessità per l'artista di sciogliersi nel movimento, o in un qualunque processo collettivo e usare gli occhi di chi incontra per raccontare ciò che vedono». Impossibile anche chiedere quali i prossimi progetti in cantiere per i prmotori di Crack. «Innanzitutto il sito, crack.forteprenestino.net, che è già un immenso database di tutto ciò che si muove in questo campo in Italia. Lo vorremmo ampliare sempre più, magari con l'aiuto di Autistici/Inventati, e dare la possibilità a chiunque di aprirsi un proprio spazio al suo interno. Una sorta di myspace per i fumettisti, ma libero dal mercato e dalla pubblicità. E poi, vorremmo iniziarci a muovere per il mondo. Le richieste che ci arrivano sono tante, ma è evidente che noi non possiamo portare all'estero una mostra già pronta. Ci piacerebbe riuscire a esportare il nostro metodo di lavoro e di organizzazione collettiva e paritaria, nello stesso modo in cui Indymedia trasmette il suo quando apre i diversi nodi del network nel mondo». Ambizioso? E' vero, ma visto il successo di questa esperienza, tentare è necessario.


Liberazione 18/06/2008

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